Articolo estratto dal volume II del 1950 pubblicato su Google Libri.
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La ventottesima Fiera di Milano, che il 30 aprile ha chiuso i battenti, ha avuto più di un titolo per essere considerata fiera di eccezionale importanza. Economisti e commercialisti potevano studiarla come punto di arrivo di due esperienze ormai centenarie: quella delle mostre internazionali e quella delle fiere campionarie1 studiosi della civiltà contemporanea potevano studiarla come «La fiera del mezzosecolo»: di un mezzo secolo straordinariamente ricco di ritrovati e di esperienze – molte inebrianti e alcune tragiche – del tutto nuove nella storia dell’umanità2; gli uni e gli altri poi vi potevano assistere come ad un collaudo di quel che possa l’organizzazione dei lavoro e la tecnica pubblicitaria oggi; infatti per quantità e qualità di padiglioni, per valore di merci, per numero di espositori e di acquirenti e per massa di visitatori la Fiera di Milano si può senz’altro dire una delle più grandiose e riuscite imprese di simil genere, con risonanze tutt’altro che disprezzabili nell’economia italiana, ed anche europea e mondiale3. Dubitiamo però che siano stati molti quelli che l’abbiano visitata avendone o cercandone una cosiffatta visione «panoramica» e superiore. Per alcuni non deve essere stata altro che un’occasione per conchiudere affari: se ne sono andati dritti dritti al reparto che loro interessava: hanno visto, chiesto, offerto, contrattato; dopo aver ben comprato o ben venduto, chiuse nella borsa le veline delle ordinazioni, se ne sono andati non curandosi d’altro; per altri invece la Fiera è stata un po’ come l’edizione maggiore del baraccone delle meraviglie, con gli imbonitori (gli altoparlanti) che vi invitavano il colto e l’inclita ad ammirare e grandezze e piccolezze e fenomeni non meno meravigliosi di Teresina-la-donna-cannone, la famiglia dei nani o il diavolo-sputa-foco; ed eccole, le anime semplici, restare a bocca aperta avanti al motore marino alto 8 metri e lungo 18, composto di 4.500 pezzi e dal peso complessivo di 480 tonnellate, o additarsi la più lillipuziana delle macchine fotografiche (sta nel taschino e fa fotogrammi di 1 cmq.!), e le microvalvole piccole come un’unghia, e il pianoforte che insieme fa il verso dell’organo, della tromba e della chitarra, o l’elicottero che si posa rombando come una mostruosa libellula sulle terrazze, o le innumerevoli macchine tessitrici, stampatrici, trecciatrici e torni automatici, che per vorticosità e fracasso di spole, di licci, di fusi, di punte, di stantuffi e di leve in movimento indubbiamente hanno un non so che di magico se non di diabolico. Anche queste meraviglie, come quelle dei baracconi, non esimono i visitatori dal cercare gioie ed esperienze più personali, come quelle della ingenua (ce n’è ancora!) gente del contado, che si affanna a riempire tasche e sporte con gli iridati lucenti fogli di pubblicità generosamente offerti dagli espositori, o quelle molto più sostanziose che buongustai di professione o occasionali si procurano alle mescite o ai banchi di pasticceri e di alimentari; prova ne sia il successo di una nota fabbrica di panettoni, che in un sol giorno di Fiera ha venduto ben undici tonnellate del suo monumentale e profumato prodotto!
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Tra le macchine in movimento una delle più interessanti è apparsa l’imbottigliatrice della Coca-Cola. Una folla compatta si pigia curiosa ad osservare il lunghissimo arnese. Sembra un dinosauro: ma è un dinosauro che si muove. In una guida a rulli scendono le cassette con le bottiglie vuote; i movimenti automatici, ritmici dell’inserviente, pezzo di macchina anche lui, le prendono a quattro a quattro e le dispongono su una rastrelliera: questa, appena piena, sedici alla volta le spinge entro un grosso tamburo di lavaggio, donde dopo qualche secondo escono, ritte e tremolanti come birilli, per essere trasportate su un cingolo ed avviate a una specie di giostra. Salgono. La giostra gira; su ogni bottiglia cala una specie di cappuccio metallico: da ogni cappuccio gemono gli ingredienti della bevanda: sciroppo e acqua gassata: perfettamente dosati. Le bottiglie riempite sono riprese dal nastro trasportatore e fanno la fila avanti ad un distributore, che schiaccia loro in testa il tappo metallico; il nastro le riprende e le consegna ad uno strano carosello, dove certe ganasce le afferrano sopra e sotto e con quattro o cinque capriole ne mescolano il contenuto. Ed eccole di nuovo traballanti in fila sul nastro trasportatore passare in rivista avanti alla luce diafana di uno schermo smerigliato; ogni tanto l’operaio, macchinalmente, ne prende una «che non va» e la mette da parte; le altre, sempre traballando, finiscono la loro passeggiata su una piattaforma girevole, dove un ultimo operaio le prende e le mette nelle cassette, che, riempite, sono trasportate da un tapis-roulant in una stanza attigua. Una scritta sopra la bocca che ingoia le cassette avverte che questa macchina, di queste bottiglie, ne lava, dosa, riempie, chiude, rimescola, seleziona e trasporta 8.000 l’ora.
Guardo, ammiro, considero la luccicante macchina e di colpo la vedo con altri occhi, sotto una luce nuova; quest’imbottigliatrice mi diventa un simbolo: il simbolo di questa Fiera. Tutta la fiera è un’imbottigliatrice. Agli ingressi le vetture tranviarie scaricano i visitatori; un nastro li trasporta, qualche volta proprio come le bottiglie, a contatto di gomito, tanti ce ne sono; e girano, girano... Scritte luminose, scritte semoventi, frecce, palloni, stampati, altoparlanti, tutti i ritrovati violenti o maliosi della pubblicità presentano, suggeriscono, consigliano, impongono bibite e radio, dentifrici e calcolatrici, autotreni, enciclopedie, poltrone letto, giocattoli, esplosivi, smacchiatrici, orologi, motoscafi, frigoriferi... Il visitatore legge, sente, beve, si riempie: dopo qualche ora, rintronato, si avvia all’uscita: la grande macchina ha compiuto il suo lavoro.
Ma prima che le vetture li riprendano all’uscita, ti viene voglia di guardarci dentro ai visitatori, come se fossero trasparenti, avanti allo schermo luminoso, per vedere di che cosa la fiera li ha riempiti; e ti accorgi che anche tu sei una bottiglia come loro, e dalla tua esperienza conchiudi che per la maggior parte di questo materiale umano la grossa macchina è ben altro che una semplice occasione di affari o un’innocente appagatrice di curiosità. Per esempio avverti che è entrato in te qualche cosa di dolce e di effervescente che tu gusti e che ti inebria; senti che misuri con compiacenza il cammino percorso da questa tua generazione, e sei orgoglioso di appartenerle perché la vedi scaltra, brava, potente come nessun’altra generazione è stata; confronti il grammofono, l’automobile, il cinema muto di una cinquantina di anni fa4 con gli apparecchi registratori, con le automobili, col cinema sonoro e a colori di oggi; compassioni la ingenua meraviglia dei tuoi nonni avanti a quei trespoli di ferro e di legno che si staccavano due metri da terra, e anche la tua incredula meraviglia di appena trent’anni fa, quando adoperasti per la prima volta il telefono automatico, oggi che la Fiera espone, non come rarità sperimentali ma come oggetti ormai di uso corrente, aeroplani da turismo a reazione e ponti radio pluricanali; nel padiglione della RAI appena venticinque anni separano quel piccolo e – via! – un po’ ridicolo trasmettitore di 0,5 kw della prima stazione radiofonica italiana5 da quel potente trasmettitore moderno a modulazione di frequenza, e da quella mastodontica valvola trasmittente che da sola irradia 150 kw. E gli apparecchi riceventi? Li ricordi quei monumentali e strani accrocchi di fili, di manopole, di pile e di antenne donde uscivano misteriosi chiocchiolii e terrificanti fischi? Ormai eccoti alla televisione, e domani anche alla televisione a colori! L’apparecchio che regolarmente funziona in quello «stand» riceve la partenza e l’arrivo dell’elicottero al primo eliporto aereo di Europa6; mentre ti avvii per assistere di persona alla novità, ti affiorano alla memoria lontani ricordi di studio, il mito di Icaro, le divinazioni geniali di Leonardo; e pensi: da Icaro a Leonardo: millenni; da Leonardo a oggi: secoli! Ma solo oggi, per la prima volta, il volo verticale è un fatto! Per essere nel giusto dovresti dare al passato quel che è suo e vedere nel progresso di oggi la rendita del sapere e dell’esperienza dei tuoi vecchi; ma la Fiera non ti dà il tempo per questi ritorni; anzi continua a spingerti violentemente verso questo senso di orgogliosa fiducia. Ecco l’enorme ruota di turbina Pelton fusa in un sol getto, ecco il microscopio elettronico che porta gli ingrandimenti a 100.000 diametri, ecco il polmone di acciaio, e i laminatoi giganti, e quella enorme trancia che, ad un semplice premere di bottone, con un solo colpo di cesoia, taglia una spessa corazza di acciaio come se fosse l’affettasalame... A questo punto non ti senti più capace di meraviglia; anche se ti mostrassero la macchina che stampa i libri sotto dettatura o la pressa che caccia fuori, uno al secondo, villini a due piani con tutti i gerani fioriti al balcone, quasi quasi le troveresti «naturali», disposto come sei a credere che, ormai, per il prepotere umano non ci sono più problemi di forza o di tecnica insolubili7.
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Ma lo sciroppo non è di solo zucchero; ha anche una droga: ed ecco che tu l’avverti in una punta di amaro. La visione troppo ottimistica di questa civiltà ti si incrina, si appanna; problemi affiorano cui tu non sai trovare una soluzione, e ti restano pesi nell’animo come un cibo mal digerito. Vedo dei visitatori avanti ad una macchina che «con un solo operaio» (c’è scritto visibilissimo sopra) in un’ora riempie, incapsula ed etichetta 1.200 bottiglie. Son lì pensierosi, e più pensierosi diventano avanti a quell’escavatore meccanico che lavora con un cucchiaio capace di scavare, sollevare e scaricare in dieci secondi un metro cubo di terra; e finalmente avanti ad un escavatore rotativo a tamburo, capace di fare con un solo operaio il lavoro di 500 uomini! Uno dice, e senti che è un lamento e un rimprovero: «E poi dicono che c’è la disoccupazione!». Allora ti accorgi che anche a te si pose una volta lo stesso problema e che tu lo sciogliesti facilmente e brillantemente come facilmente e brillantemente si risolvono quasi tutti i problemi in sede teorica; e ti senti pronto a sciorinare le conclusioni delle tue indagini: «Ma no, vedi, hai torto a lamentarti e a vedere nella macchina il tuo danno! Già, prima di tutto, non è sempre vero che essa ti rubi il lavoro. Non pensi quanti uomini ci vogliono per progettarle queste macchine, per costruirle, collaudarle, venderle, manovrarle, ripararle? E non pensi che molti di quei lavori che tu credi che la macchina rubi alle tue braccia, senza la macchina non si sarebbero fatti mai e da nessuno? Quale complesso di mano d’opera potrebbe oggi, anche volendolo, senza ricorrere alla macchina, costruire funi di acciaio per teleferiche, cavi telefonici a varie decine di coppie, locomotori, transatlantici? quale impresa oggi rischierebbe il suo capitale per la costruzione di bacini montani, di grandi acquedotti, per bonifiche, e magari solo per la produzione e il lancio del... Coca-Cola se non potesse contare nelle macchine? Ma poi, ammesso anche che, a ciclo lavorativo concluso mediante l’impiego di macchine, risultasse sempre diminuita, e anche di molto, la quantità di mano d’opera per unità di prodotto, credi tu che in definitiva questo sarebbe a tuo danno? Non pensi che la macchina spesso ti toglie un lavoro faticoso, sporco, pericoloso, inumano per dartene uno più facile e meno materiale? Lascia agli animali, che non sono capaci d’altro, lo sfibrante lavoro dei muscoli: ma di’ benedette le automobili che tolgono ai cinesi la fatica del pousse-pousse, benedetti i ventilatori che tolgono agli uomini il bestiale lavoro negli organi e nelle fonderie, nonché le indirizzatrici elettriche che, stampando 5.000 indirizzi l’ora, hanno tolto per sempre agli scrittori la lacrimevole materia dello «scrivano fiorentino» del De Amicis!8. Infine, perché ti riconcilii del tutto con la macchina, ti faccio osservare che solo per essa tu puoi oggi godere, pagandolo poco, quello che senza di essa non avresti mai goduto o avresti avuto solo a prezzo altissimo»9. – Ma mi accorgo che tu non mi intendi! Ed io ti capisco: le mie spiegazioni sono troppo lontane da te, mentre la tua preoccupazione ti è troppo vicina! Tu «sai» che cosa è la disoccupazione, perché l’hai sofferta, perché la temi! Ed allora ti confesso che anch’io soffro un po’ come te: avanti a questa macchina che fa il lavoro di 500 uomini anch’io mi sento inquieto, perché penso che, sì, tutto andrà bene se chi comanda la macchina farà il galantuomo e sarà saggio... Ma: e se così non fosse? Se chi ne ha le leve e ne può accelerare il ritmo di funzionamento, per voluto o inconscio egoismo le desse il via senza affatto curarsi, anzi irridendosi, dei problemi umani che essa crea od occasiona? Vi dovrà essere obbligato! – E da chi? – Dallo Stato, che è fatto apposta per tutelare con le sue leggi il giusto interesse di tutti! – Ma e se l’egoismo o l’insipienza del legislatore farà ingiuste o insufficienti le leggi? e se la sua codardia non ne tutelerà l’osservanza? Insomma, se sopra ogni interesse particolare, in chi dovrà comandare e chi dovrà ubbidire non ci sarà un po’ di coscienza? – E sento nel morso del dubbio diminuirmi la fiducia, e non ho più il coraggio di spingerti a conciliarti incondizionatamente con questa infida civiltà, di cui la macchina, anche se non è la responsabile, è il simbolo.
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Altre volte solo i visitatori più spiritualmente svegli avvertono l’amarotico della droga che la massa riceve del tutto passiva: ma la droga entra anche se «la bottiglia» ne avvertirà gli effetti solo quando forse non ne ricorderà più la provenienza. Ernesto Renan, uscendo dall’esposizione di Parigi del 1878, esclamava soddisfatto: «Que de choses dont je puis me passer!» Supponendo anche che quella sua soddisfazione sia stata del tutto sincera, e non un po’ di circostanza come l’esopico Nolo acerbam sumere, quanti di questi visitatori pensiamo che dicano lo stesso? Pochi certamente, ché la Fiera è tutta una macchina creatrice, esasperatrice di esigenze insoddisfatte. Che cos’è infatti una fiera se non un ruotismo di quel ciclo economico, di cui la ferrea legge è: produrre sempre di più, per diminuire i costi sempre di più, per vendere sempre di più? Ma chi è che aumenta il volume delle vendite? La richiesta e le esigenze del pubblico. E se il pubblico nelle esigenze primordiali si sentisse già soddisfatto? Creargliene delle altre, e poi delle altre ancora! Per questo lavoro la Fiera è nata fatta: tutto fa vedere perché tutto sia conosciuto e tutto desiderato, specialmente quello che due minuti fa non desideravi affatto perché non ne conoscevi l’esistenza e forse neanche la possibilità. Hai visto con quali occhi i bambini si fermano avanti agli «stand» dei giocattoli? Certamente non guardano i birilli e i cavalli a dondolo, che erano i confini della felicità della tua infanzia recente, ma guardano i fucili con la bandoliera alla Far West, le piccole automobili telecomandate, l’anitra elettrica che nuota nell’acqua e il grande paesaggio ferroviario dove due trenini elettrici, completi di locomotori, carrozze viaggiatori, vagoni merci e carri cisterna, corrono velocissimi, in rettifilo e in curva, senza mai scontrarsi, in mezzo ad un fantastico accendersi e spegnersi, aprire e chiudersi di semafori verdi e rossi, di scambi e di passaggi a livello. Ma non hanno gli stessi occhi quei giovinotti che nel reparto degli sport passano in rivista biciclette e motoscafi, motorscooters e automobili? E quelle signore e signorine che ammirano spazzole e tessuti di nylon, borse di vipla, oggetti di stiroplasto e tutta la maliosa lucentezza degli elettrodomestici? E quella giovane coppia? cosa fa lì, incantata, con le mani nelle mani, avanti alla linda casetta fabbricata in una settimana o avanti a quelle «matrimoniali»...? Ma sì: nei loro sogni romantici l’hanno sognato così il loro nido, bello, caldo, raccolto, tutto per loro; ma era un sogno! E adesso se lo vedono davanti, di colpo fatto realtà, con quegli impellicciati lucentissimi, i paralumi discreti, le soffici lucenti coperte, la maiolica robbiana a capo del letto, il dondolo elastico per il piccolo, e, in un angolo della veranda, il luccicante socchiuso sonoro radio-bar!
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Questa inesorabile creazione di sempre nuove necessità non desterebbe preoccupazioni né nel paziente né nell’osservatore se in proporzione ad esse la macchina che le crea provvedesse anche i mezzi per soddisfarle; ma questo purtroppo non sempre avviene, perché la produzione in serie diminuisce sì il costo di molti oggetti ma non riesce davvero a mettere tutto alla portata economica di tutti. Se è vero che tante cose che, solo alcuni anni fa, erano considerate di lusso, e anche di gran lusso, oggi sono diventate di uso del tutto comune, per molte altre la diminuzione dei prezzi si è fermata ad un limite-crisi, cioè giusto di qua dell’impossibile ma molto oltre il limite del facile, insomma nella zona classica dove si accumulano i desideri insoddisfatti10. «Quella matrimoniale meravigliosa? Una volta appena un signorone poteva mettervi gli occhi sopra; ma oggi, magari a rate, magari impegnando qualche cosa, anche noi potremmo averla!» pensa la coppia. «Quell’auto! Potrei comprarla rinunciando alla villeggiatura», pensa quel commerciante; mentre un impiegato pensa alla cessione del quinto per procurarsi la Lambretta, e gli stessi problemi di prendo-rinuncio sentono l’industriale avanti alla saldatrice elettronica, il contadino avanti alla mungitrice automatica, lo studioso avanti all’enciclopedia, la donna di casa avanti alle poltrone letto e alla borsa di vipla, o alla lavatrice elettrica o ad un umile ma non meno desiderato asciugacapelli.
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Ecco dove il visitatore avverte di nuovo il senso dell’amaro; non pensa a rallegrarsi per quel moltissimo che la civiltà gli ha dato e che altri, per millenni, non hanno mai avuto: solo quel che non ha e che potrebbe avere lo preoccupa ed è sufficiente per farlo sentire non felice. Allora s’accorge che questa macchina sta compiendo in lui una trasformazione di cui intravede, allibendo, conseguenze mostruose, inumane, mille volte più inumane del lavoro animalesco che la macchina gli ha tolto; vede che se ogni macchina tende a creargli o ad esasperargli un bisogno, – e non ne può fare a meno dato che questo esige il «funzionamento economico» che è la ragione stessa della sua esistenza–, il macchinismo, cioè tutta questa civiltà organizzata come una supermacchina, tende a creare e ad esasperare in lui addirittura il bisogno assoluto di godimento, senza il quale egli cessa di essere quella sola cosa che per la supermacchina assolutamente è: un consumatore dei suoi prodotti; anzi un consumatore mai soddisfatto, perché questo esige non più solo il suo funzionamento economico, ma il suo funzionamento tout court!11. Ma allora cos’è questo macchinismo? una piovra? un carcinoma? E s’accorge che si è fidato troppo di qualche cosa che l’ha imbrogliato. In questa civiltà della tecnica, di cui un’ora fa si sentiva tanto orgoglioso di essere lui l’artefice, adesso comincia ad avere dei dubbi; collega l’esperienza preoccupante, che egli adesso ne ha avuta, con tante altre cose poco pulite e molto crudeli che, a torto o a ragione, ha sentito imputare a colpa proprio di questa civiltà meccanica; l’egoismo di chi ha in mano le leve della macchina su chi non ne è che un ingranaggio; le due guerre mondiali, che di quella tecnica sono state, sì, occasione impagabile di progresso ma anche il collaudo del suo diabolico potere distruttivo; la nuova guerra che egli teme, apocalittica, definitiva, per il potere annientatore dell’energia atomica ultimo e suo più meraviglioso ritrovato. «Ma – si domanda inquieto – questa macchina non era fatta per dare il benessere, la tranquillità? E invece che ha dato? che darà? finirà col mangiarsi chi l’ha costruita? Finirà con lo stritolarmi tra i suoi stessi ingranaggi?». E allora guarda la grossa macchina con diffidenza; poi anche con rancore, perché la macchina non solo l’ha imbrogliato non dandogli quel che gli aveva promesso, ma l’ha derubato togliendogli quel che era più suo. Solo adesso si accorge di quel che è avvenuto. La macchina l’ha reclamato come materia necessaria alla sua legge di produzione-consumo. Egli vi si è inserito. La macchina se n’è avvantaggiata accelerando il suo ritmo di produzione: ma lui? Lui si è ritrovato non più «uomo»; ha subìto un furto di personalità: è stato trattato proprio come una bottiglia. Allora si ribella; dice: Certamente qui qualche cosa non va: in questo organismo abnorme qualche ghiandola non funziona o funziona troppo; qualche circuito è sbagliato. Bisogna frenarla questa macchina, rivederla, prima di incamminarla con un altro ritmo e forse in un’altra direzione! Non è possibile continuare a prestarmi alle sue prepotenti esigenze tecniche sacrificando le mie esigenze umane, fatto per lei bottiglia tra bottiglie, riempito, agitato, trasportato solo secondo il suo beneplacito! La macchina la feci perché doveva servire a me, «uomo», e non perché io, «uomo», servissi alla macchina!12.
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Euforia di prepotere, desiderio di benessere, gioia del possesso, tecnicismo, esigenze del ciclo economico, valori della persona umana, vago presentimento di pericoli...: tutto questo ed altro ancora muove ed agita la Fiera del mezzosecolo. Dove il visitatore troverà la sintesi armonica di tante realtà contrastanti? Dove troverà il complemento di tutto quello che indubbiamente questa nostra civiltà ha di bello, di grande e di buono, ma anche di monco e di vuoto?
Pare che gli organizzatori della Fiera abbiano voluto indicare loro stessi la via giusta della ricerca illuminando di luce riflessa tutte le notti durante la Fiera la guglia centrale del Duomo. No: quello non è un oggetto come gli altri. È un fuori serie. Chi l’ha concepito, tenne conto, sì, delle leggi della materia ma si ispirò soprattutto alle esigenze dell’amore; guidò la mano di chi l’eseguì un’alta fantasia; l’opera compiuta forse non quadrò i conti di un bilancio di cifre ma fu la risposta di un’anima, di mille anime, di un popolo di credenti ad un’offerta, mirabilmente più sublime, fatta agli uomini, del Cielo. Ecco: nel buio che lo circonda e lo rende più lucente, il miracoloso merletto di alabastro e d’argento sale leggero, trasparente, immateriale; all’apice si libra la Madonnina d’oro. Anch’Essa è senza peso: musica, arte, bontà, fede. Simbolo di ciò che dovrebbe essere questa civiltà umana: armonia di una scala di valori al vertice della quale c’è Dio!
1Infatti, la prima Mostra internazionale si teneva a Londra nel 1851; e nel 1850, a Lipsia, per la prima volta nella storia delle fiere, alcuni commercianti esposero non tutte le partite da commerciare ma solo il campionario di esse.
2Automobile, cinema, radio, velocità supersoniche, televisione, ultrasuoni, volo verticale, energia... per nominarne solo alcune nel campo della fisica e della meccanica, tacendo di altre non meno nuove, per es. nel campo della medicina e della biologia; per le esperienze tragiche basta ricordare le due guerre mondiali.
3Alcuni dati forniranno al lettore un’idea delle sue proporzioni. La superficie adibita era di 330.000 mq., pari a quella di un quadrato di circa 600 metri di lato; di quest’area, quasi la metà (mq. 161.500) era coperta da 59 padiglioni. Gli «stand» degli espositori (circa 8.000, dei quali più di 3.000 erano occupati da 42 paesi o territori esteri) si snodavano su un fronte di ben 45 km. Il valore delle merci esposte è stato di 67 miliardi di lire; per trasportarle sono stati impiegati 622 carri ferroviari (dei quali ben 580 provenienti dall’Estero) e quasi 8.000 autocarri. I visitatori sono stati 3.900.000.
Bastino queste due esemplificazioni per dare un’idea del giro di danaro che tutto ciò ha causato: supponendo che ogni visitatore abbia speso, in media, solo 50 lire per mezzi di trasporti urbani e lire 200 per l’ingresso in Fiera, in soli 19 giorni a circa 20 milioni si deve essere aggirato solo per la Fiera l’incasso delle aziende di trasporto di Milano, e di circa 800 milioni di lire deve essere stato l’ammontare degli incassi agli ingressi della Fiera.
4È necessario ricordare che il fonografo di Edison, allora oggetto di inaudita meraviglia, fu esposto al pubblico per la prima volta nell’Esposizione internazionale di Parigi del 1889; che la prima fabbrica italiana di automobili (FIAT) sorgeva a Torino nel 1899, e che i primi esperimenti dei fratelli Lumière per il cinema non risalgono oltre il 1895?
5Questa prima stazione radiofonica italiana entrò infatti in servizio il 6 ottobre 1924.
6L’eliporto Leonardo da Vinci adattato nel recinto stesso della Fiera, sul terrazzo del padiglione Casa-Negozio-Albergo.
7Una spinta vigorosa e palese verso questo senso di orgogliosa fiducia il visitatore l’aveva nel padiglione della chimica industriale, che era tutto una dimostrazione di quest tesi: «Guarda che cosa tu uomo riesce a fare oggi con appena alcune materie prime e un po’ di elettricità!». E bisogna dire che a servizio della tesi vi veniva messa una tecnica pubblicitaria perfetta: in una prima stanza soffusa di un «buio mistico» tenui luci e suggestivi trasparenti rifacevano la storia dell’universo come preparazione alla realtà, oggi; dal «buio mistico» partivano, come sei direttrici di pensiero, sei tubi colorati originantisi da altrettanti carrelli, ciascuno ricolmo di una delle sei materie prime. Il visitatore non aveva che da seguirli, e di colpo vedeva nei singoli reparti trasformarsi la bauxite, la pirite, il carbone... nella fantasmagorica visione di medicinali, di coloranti, di esplosivi, di tessuti, di fertilizzanti, di materie plastiche... In questo clima euforico si comprende. anche se non si giustifica, il semplicismo con cui gli espositori hanno esposto nell’ombra mistica uno Schema dell’evoluzione biologica della terra, nel quale l’uomo appare come l’animale dominante di un’era antropozoica in fase umanoidea in attuale ,evoluzione verso la forma superiore di «superuomo» dell’era psicozoica (!) in fase... angeloidca (!!). Se non erriamo lo schema è un... peccato giovanile del Prof. F. Sacco, e rispecchia l’ingenuo ottimismo evoluzionistico della scienza di almeno quaranta anni fa.
8E si potrebbe continuare con i frantumatoi meccanici di pietre, i soffiatori nelle vetrerie, i laminatoi, ed anche con la macchina lavapiatti, la posta pneumatica o il telegrafo, dato che l’uomo, che è tale per l’intelligenza, certamente può fare qualche cosa di meglio che spaccare sassi, spolmonarsi, battere l’incudine, lavare i piatti e una settimana di viaggio per portare una lettera... Non c’è dubbio poi che più umano di quello degli antenati egiziani per innalzare a forza di braccia i massi delle Piramidi è il lavoro del loro lontano nipote che oggi al Porto di Alessandria manovra una grue; e che meno mostruosi della fatica che costò per migliaia di schiavi ogni metro della Via Appia sono i mostruosi bulldozer americani per aprire le strade moderne!
9Non è questo il luogo per sciogliere tutti i gravi ed intricati problemi sociali posti dal macchinismo; solamente abbiamo voluto far presente il senso del problema come anche l’uomo medio l’avverte con inquietudine. Per quest’ultimo particolare, anticipando su quanto si dirà nella nota seguente, ci limitiamo ad osservare che indubbio merito della macchina è se oggi alcuni oggetti, già di gran pregio, sono diventati addirittura quasi vili; tali per es. la carta, il giornale e gli stampati in genere (fatta eccezione del libro scientifico ed artistico), le sigarette, i fiammiferi, il sapone...
10Crediamo utile guidare il lettore nell’approfondimento di questa verità con un’osservazione e con alcuni dati. L’osservazione è questa: una volta negli oggetti di mercato era molto più netta la distinzione tra le due categorie di oggetti necessari alla vita o al mestiere, e oggetti di lusso; gli uni e gli altri però normalmente nella massa degli uomini non creavano desideri insoddisfatti: non i primi perché di regola erano alla portata delle borse degli interessati (tale per tutti, per es. il pane, il vino, il sale); non i secondi, perché il loro relativo altissimo prezzo li metteva alla portata solo di pochissimi privilegiati: tali i broccati, le cristallerie, le carrozze dorate, gli orologi, i gioielli e altra «roba da signori», che il volgo si limitava ad ammirare senza desiderare, proprio come ancora oggi noi facciamo avanti ad una tela di Raffaello o al Gran Mogol: appunto il loro stragrande prezzo li mette fuori del tiro dei nostri desideri.
Per i dati, notiamo che molto facile e molto lungo sarebbe fare la lista di tutti gli oggetti e servigi che oggi fanno parte normale del tenore di vita medio delle nostre popolazioni e che non hanno corrispondenza nei «lussi da signori» di, poniamo, un secolo e mezzo fa; a mo’ di esemplificazione ricordiamo la luce elettrica (1878), il termosifone (1820), i fiammiferi (1830), le calze di seta o di raion, la partita domenicale, la villeggiatura, i viaggi, l’orologio al polso, la penna stilografica (1900), la macchina da scrivere (1874), la macchina da cucire (1850), il telefono (1878), il termometro, la valigia (1900)... Anche in tema di attrezzatura professionale se n’è fatto di cammino! Chi non conosce quel portento di tecnica, di bellezza e di praticità che è la «colonna» da dentista, di cui oggi nessun modesto odontoiatra può far a meno? e quale barista oggi non stima assolutamente necessario al suo «esercizio» il lucentissimo e costosissimo complesso di macchina per espressi, gelatiera, frullino e dosatrice, con tutti gli ammennicoli reclamistici di vetrine, di luci riflesse (e multicolori) e di scritte col neon? Infine, in tema d’igiene, ci limitiamo a notare che oggi un operaio si sentirebbe umiliato se dovesse fare il bagno nella rozza mezza botte in cui lo faceva Napoleone I, il quale a sua volta osserverebbe che non molte stanze del suo Versailles erano «lussuose» come la cucina e il bagno di molte case moderne.
Va anche notato che questo processo tende a ridurre rapidamente il tempo occorrente per far passare i produttori dai prezzi alti della fase quasi sperimentale ai prezzi bassi della produzione in serie: se l’orologio ci ha messo qualche secolo, alla macchina fotografica sono bastati cento anni, alla radio una cinquantina, alla televisione una ventina... Sette anni fa solo un milionario poteva permettersi il lusso di curarsi la polmonite pagando sulle 100.000 lire la penicillina che oggi costa sulle 5.000; ma la streptomicina, per fare la stessa traiettoria di «svilimento» ci ha messo meno di tre anni!
Questo merito, di aver reso accessibile un certo benessere (il «confort» della vita moderna) a sempre più larghe masse di umanità, solo un cieco potrebbe negarlo alla civiltà della macchina!
11A conferma di questo diffuso stato d’animo, si legga quanto, sia pure con errata concezione delle esigenze dell’ascetica cristiana, scriveva Pietro HAMP: «Il nostro malessere deriva dal fatto che la grande organizzazione industriale stata creata per popoli cristiani, la cui spiritualità tendeva alla semplicità, alla povertà, al non uso delle cose, mentre la tecnica largiva loro abbondanza di cose da usare. A che serve il perfezionamento della macchina in un popolo che ha l’amore alla privazione? Occorre o disindustrializzarsi o scristianizzarsi. Non si tratta, intendiamoci, d’abbondonare la religione di Cristo, ma i suoi modi di vita e il disprezzo dei beni di questo mondo. Perché produrre questi beni se si attribuisce a merito il non servirsene? Da ciò il danno che in questo momento deriva al commercio ed all’industria e che crea la disoccupazione. La gente ci tiene ancora a mantenersi in stato di sotto-consumo». (Da Daniel ROPS, Il mondo senz’anima, capo IV; il corsivo è nostro).
12Il lettore avrà notato che alle note l’abbiamo rimandato per giustificativi ed indicazioni utili per la conferma e la soluzione degli interrogativi che nel testo abbiamo attribuiti al visitatore, dotato sì di sensibilità morale e sociale ma privo della competenza del sociologo. Attenendoci anche in quest’ultima nota al sistema adottato notiamo, a complemento del testo, che le spiacevoli conseguenze immediate del macchinismo e il conseguente diffidente malessere che l’uomo medio prova rispetto ad esso, ci sembrano da imputare non tanto alla macchina in sé quanto al passaggio da una vita organizzata dal e sul lavoro manuale ad un’altra organizzata dal e sul lavoro delle macchine. Ma ogni passaggio è una crisi, tanto più avvertita quanto più il passaggio è brusco.
Questa crisi non finirà se non quando la vita economica avrà trovato il suo equilibrio. Ma quando lo troverà? (se lo troverà!). Il tragico della domanda è che lo stesso uomo che ne soffre, può, senza saperlo, essere causa del ritardo di questo equilibrio, restando troppo attaccato, per un comprensibile ma non lodevole fenomeno di inerzia (vecchiaia) a forme e schemi irrimediabilmente destinati a tramontare.