Articolo estratto dal volume IV del 1952 pubblicato su Google Libri.
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A mezzo settembre si chiude la stagione delle grandi ferie. Anche i villeggianti che avevano resistito alle prime avvisaglie dell’estate declinante, si affrettano a far le valigie; baite e rifugi alpini, sorpresi dalle prime nevicate, si vuotano; i primi piovaschi cacciano a valle la clientela dell’Appennino; solo pochi ritardatari approfittano di scampoli di bel tempo sulle spiagge ormai quasi deserte. Anche il traffico delle grandi vie di comunicazione rallenta: i grossi torpedoni diradano, i treni viaggiano meno affollati. Agenzie di turismo e villeggianti, tornati alla loro attività ordinaria, chiudono i bilanci: soddisfatte le prime, sorpresi gli altri, secondo che i consuntivi rispondono ai guadagni previsti o superano le spese preventivate.
Ma dall’alto di uno dei passi più noti delle Alpi, dove il declinare della stagione, più rapido, mostra più forte il contrasto tra la fisonomia estiva e quella ordinaria del luogo, l’autunno imminente invita ad un bilancio di alcuni valori, molto più importanti delle «tintarelle», degli incassi e della salute, perché non collegati con gli interessi di una stagione, o di una ditta, ma addirittura con l’eterno avvenire delle anime.
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A poco più di trenta chilometri a monte da Aosta e a circa 2.500 metri sul mare, la strada che sale dall’Italia, aggirato con un’ultima curva uno sperone roccioso, si forza tra due rupi un passaggio e sbocca nella conca che forma il valico del Gran San Bernardo.
Che cos’è che quassù riempie di attonito stupore il viandante e ne guida a silenziosa meditazione i pensieri? Senza dubbio la bellezza del luogo, niente affatto comune in queste Alpi, pur inesauribilmente ricche di meraviglie. Laggiù, limpido zaffiro incastonato nel vallone selvaggio, il lago, che al margine riflette la massa bianca dell’Ospizio, e giù nel profondo la linea frastagliata e le giogaie nevose che incombono. L’occhio ne risale i fianchi aridi e scoscesi, chiazzati di bronzo, d’argento e di ruggine, si porta verso il cielo azzurrissimo e scorre quella fantastica doppia parata di vette: a destra i contrafforti del massiccio del Gran Combin, col Mont Mort, la Tête de Barasson, il Mont Menouve e il Vélan; a sinistra quelli a ridosso del massiccio del Monte Bianco: il Dronaz, lo strapiombante Pain de Sucre, l’Aiguille de Lesache e il Gran Golliaz. E intanto, l’aria limpidissima, il silenzio altissimo immergono l’animo in uno stato di attesa, come se qualche avvenimento straordinario da un momento all’altro dovesse accadere, o fosse già accaduto e se ne aspettasse la rivelazione.
Ma più su dell’occhio sale la fantasia, abbraccia tutto l’immenso arco delle Alpi, e dall’alto dei suoi gioghi impervi contempla le cento strade che vi convergono dalle regioni e dalle nazioni dell’Europa, prima girare incerte e poi quasi tutte arrestarsi alle sue pendici; solo poche arrampicarsi faticosamente verso i rari valichi e farvi confluire le correnti dei commerci e delle civiltà, delle imprese militari e delle invasioni barbariche. Allora la memoria rivà i millenni trascorsi, i ricordi affiorano e fanno rombo nella mente. Di qui passarono i consoli, i cesari, i legionari, che, quando l’Incarnazione era imminente, mutavano in via quel che fin allora era stato un incerto sentiero; e, quando gli evangelisti cominciavano a mettere in lettere la buona novella, mutavano la via in strada lastricandola con queste pietre che, dopo quasi duemila anni, ancora affiorano compatte e serrate, a pochi metri dal Passo; qui per cinque secoli passò l’ordinato flusso dei commercianti romani, lasciando a Giove Pennino, che dal suo tempio eretto al sommo del Passo proteggeva il loro rischioso viaggio1, le monete che ora, nel musco dell’Ospizio, ricordano senza discontinuità tutti gli imperatori da Augusto a Teodosio; di qui passarono e ripassarono papi, come Stefano II e Leone IX, e imperatori, come Carlomagno; saracini, longobardi e normanni; quassù finalmente, poco dopo l’anno mille, san Bernardo da Mentone salì per costruire un rifugio a protezione dei pellegrini, insidiati insieme dalle orde dei soldati in guerra o dei briganti in agguato, e dagli elementi della natura infuriati2. D’allora, i figli e i successori del pio arcidiacono di Aosta furono testimoni della storia che continuò a passare per il Mons Joux, divenuto ormai Passo del Gran San Bernardo; sotto i loro occhi passò Enrico IV, penitente di Canossa; qualche tempo dopo sfilarono le truppe di Federico Barbarossa; nel 1434 Amedeo VIII, diretto all’assedio di Chivasso, vi trascinò i suoi soldati e la sua artiglieria, prima prova di quanto, un quattro secoli dopo, vi avrebbe compiuto il Buonaparte, primo console.
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Per quanto i suoi storici, più oggettivi che ammirati, abbiano di molto ridotto la portata di quella sua leggendaria impresa, sia ricordando i condottieri che prima di lui l’avevano tentata con successo, sia riportando ai suoi dati reali la vittoria di Marengo, che ne fu la conseguenza immediata, sfrondandone l’epica versione che non disinteressatamente ne fornì lo stesso Napoleone3, il pellegrino o il turista che arriva quassù non può non rivivere quella storica settimana, dal 15 al 23 maggio del 1800, man mano che i ricordi materiali gli passano sotto gli occhi, ridando a quelle vicende trascorse il vivo risalto di fatti presenti. Ecco: in questa stanzetta, seduto su questa poltrona, nell’albergo Au déjeuner de Napoléon I di Bourg St. Pierre, il trentunenne generale il 20 maggio fece colazione, circondato dai generali Duroc, Murat e Marmont, mentre nella stretta valle era in pieno svolgimento il passaggio dei loro 45.000 uomini, dei 3.000 tra cavalli e muli e quello dei quaranta pezzi d’artiglieria, faticosamente spinti sulla neve a forza di braccia; presso questa colonna miliare, che ricorda «Costantino imperatore, pio, felice, invitto, figlio del divino Augusto», passò a dorso di mulo, lo sguardo alto verso le cime, il piccolo ardimentoso Còrso: Jean-Nicolas Dorsaz gli guidava la cavalcatura, l’accompagnavano il canonico Murith, priore di Martigny, e il canonico Terettaz, procuratore al Gran San Bernardo; ecco, nell’Ospizio, a pochi passi dal sepolcro del generale Desaix, vero vincitore e il più noto degli uccisi dalla battaglia di Marengo, la stanzetta dove Napoleone, la sera di quel giorno stesso, fu ricevuto dal santo prevosto Luder e si fermò a cenare prima di riprendere il cammino verso l’Italia...
Che cosa dovette restare nella memoria dell’ambizioso generale di quel suo rapido passaggio sulle Alpi? L’associò egli solo alla vittoria che doveva definitivamente e rapidamente far ascendere la sua stella, o la vita e l’opera di quei religiosi, stabile presenza della carità e dell’abnegazione cristiana, là dov’egli aveva portato l’effimero fragore dei suoi armati, gli disse qualche cosa di superiore e di eterno? Chissà? Certo è che nella soppressione generale dei conventi decretata dalla rivoluzione francese e mantenuta dai suoi epigoni, Napoleone salvò, unico, quello del Gran San Bernardo, e poi ai religiosi che lo custodivano confidò l’altro ospizio da lui iniziato sul Passo del Sempione; infine, per assicurare la sussistenza dell’uno e dell’altro donò loro larghi possessi da lui tolti in quel di Pavia ad ordini religiosi...4.
Oltre, però, questi benefici sostanziali, senza volerlo, con quel suo passaggio Napoleone gliene procurò un altro di pregio molto discutibile: la grande fama oggi ancora non spenta. Infatti, venutosi l’Ospizio a trovare all’inizio del vertiginoso ed effimero ascendere dell’astro napoleonico, proprio quando il romanticismo cominciava a diffondere i suoi ideali di sogno e di leggenda, esso divenne, nell’opinione comune europea, più che una realtà di uomini e di cose, un’astrazione indefinita fatta di mistero e di leggendari ardimenti, campata in un’atmosfera melanconicamente contrastata di orrido, di eroico e di pietoso; quell’orrido che nelle acqueforti del primo ottocento fu rappresentato dalle prospettive di altezze vertiginose e di alti, nudi, tormentati strapiombi; quell’eroico che fu affidato ai «monaci»5, lasciati però discretamente in secondo piano in omaggio al laicismo imperante; e quel pietoso che si condensò negli occhi dolci, quasi umani, dei celeberrimi cani di San Bernardo, messi in primo piano, sproporzionatamente grandi, in mezzo a desolate distese di neve o tra turbini di nevischio sollevati dalla bufera; e forse anche un po’ di questa visione, nell’autunno del 1843, spinse quassù, dalla lontana Normandia, il ventenne Luigi Martin, per chiedere di entrare nell’Ospizio a passarvi la vita nella preghiera e nella carità, e ancora l’accompagnava quando, con nostalgico rimpianto, all’ultima delle sue figlie, la piccola santa Teresa del Bambin Gesù, raccontava il doloroso rifiuto che n’aveva avuto. Alle acqueforti, dopo l’invenzione del daguerrotipo, tennero dietro le oleografie dell’ultimo ottocento, nelle quali la tecnica facilona s’accordò perfettamente col contenuto tutto commerciale delle illustrazioni; allora il Gran San Bernardo, in colori lucidi e chiassosi, fu stampato in cartelloni, dove e vette ed Ospizio e rupi e neve e lago e religiosi furono tutti ridotti a secondari elementi decorativi di bei cani, chiazzati bianco e ocra, i cui occhi, sempre più miti ed inverosimilmente umani, servivano a fare la réclame di marche di cioccolato, di tabacchi, di cognac o di formaggi. E non c’è da farsi illusioni: questi più o meno sono rimasti i clichès di moltissimi tra i molti turisti, che nella bella stagione vengono quassù dalla Val d’Aosta o da Martigny. Li vedi scendere soddisfatti dai torpedoni e dai cars, darsi una sgranchiatina alle gambe intorpidite, volgere appena un’occhiata distratta a queste vette meravigliose e al lago purissimo, e chiedere immediatamente due cose: — Dov’è la morgue e dov’è il chenil. La morgue è il casotto dove i religiosi mettevano le salme delle vittime della montagna; la curiosità dei visitatori per la macabra parata di corpi, mummificati dal freddo nelle tragiche posizioni in cui la morte li ha fissati era tanta, che i religiosi hanno dovuto prendere la decisione pratica e di buon gusto d’impedime a tutti la visita murandone addirittura l’accesso. L’accesso invece al canile di allevamento è ancora aperto; e qui trovano la gioia vecchi signori inglesi, specialmente quando possono portarsi via un cucciolone sborsando solo trecento franchi svizzeri; godono un mondo i bambini, ma soprattutto s’inteneriscono le più o meno mature zitelle o signore, che quassù, in tutte le lingue del mondo, vezzeggiano i cani coi più teneri aggettivi, che non hanno potuto o voluto dare ai loro bambini, e nutrono intanto abbondantemente quei bestioni con le candide zollette di zucchero che tanti bambini desiderano invano6.
Oh, sì: i turisti danno uno sguardo anche all’Ospizio, al suo museo, alla sua chiesa; nel museo si additano gli animali imbalsamati; in chiesa qualcuno anche prega: ma quanti riescono a comprendere l’alto significato di questo strano convento quassù? Presto, presto: ché il tempo urge! Via, dunque, allo spaccio, dove sorridenti ragazze s’ingegnano di calmare le impazienze degli affollati compratori distribuendo i «ricordi del Gran San Bernardo»: cioccolate, cartoline illustrate, bottigliette di Chartreuse o di profumi, sigarette, bibelots... Presto a scattare fotografie con lo sfondo romantico del lago, o meglio ancora, dei cani; e poi, via nei rombanti pullman giù per le giravolte che portano a valle, a dire agli amici e alle amiche invidiose: — Sono stato al Gran San Bernardo! I cani? Sì: come vitelli! La morgue? No: non la fanno vedere più! Che peccato!
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Ci vogliono le ore dell’ultimo pomeriggio per far cessare quassù l’allegra baraonda. Quando il sole comincia ad allungare le ombre, vena di rosa i picchi nevosi, veste di porpora i fianchi delle montagne e muta il lago, increspato dalla brezza serotina, in un abbacinante scintillio d’argento liquido, gli ultimi rombi dei torpedoni, delle motociclette e degli scooters si perdono a valle, e quassù piomba un silenzio di chiesa. Nello spaccio ormai vuoto le ragazze smistano la moneta e tirano i conti; sul ponticello di confine i finanzieri italiani e svizzeri si salutano; i canonici, caratteristici nella bandoliera bianca, si ritrovano finalmente chez-eux. Una quiete sacra ti entra nell’anima quasi un brivido, com’entra nelle carni il soffio del vento notturno sempre freschissimo a queste altezze, quando, a riscontro dello stellato fittissimo, rispondono solo tre o quattro luci dalla terra, ed appena un’incerta stria riflessa dice che in questa conca, nera come l’inchiostro, dorme un lago.
Nel silenzio della natura, nel silenzio dell’anima sei di nuovo portato a meditare; senti che quanto i tuoi occhi hanno visto durante il rumoroso pomeriggio ha qualche cosa di falso, di triste...; e di nuovo tanti ricordi affiorano, questa volta per dare un vero significato a questo strano Ospizio e ai suoi abitatori. Scopri distintamente che due sono i Gran San Bernardi; uno, quello chiassoso, pubblicitario e curioso dei turisti, che dura sì e no quattro mesi su dodici, da mezzo maggio a mezzo settembre; l’altro, quello vero, che dura ogni anno per tutti gli otto mesi che la neve ne blocca le strade di accesso, e che per otto secoli, quando quassù non passavano allegri turisti, ma solo stanchi viandanti, durava per tutto l’anno ininterrottamente.
Per vedere nella sua vera luce questo secondo Gran San Bernardo, fatto di preghiera e di carità, dimentica i bei giorni dell’estate ed immagina di essere qui d’inverno, di scorgere tutti i gioghi, tutta la conca, tutte le rupi cariche di neve: ascolta i venti ascendere impetuosi dalle valli ed incunearsi e scontrarsi nel Passo, e fischiare ed urlare infuriati. Vedi? Su quell’alta torre di acciaio c’è quella specie di motore d’aeroplano: è una dinamo, installata lassù per fornire l’energia elettrica all’Ospizio: ma non ha mai funzionato: ché, sotto la spinta dei venti furibondi dell’inverno, i cavi d’acciaio si snervano, le pale dell’elica, per quanto robuste, si schiantano e volano via come fuscelli... Ebbene: nelle lunghe giornate senza sole, durante la tempesta e la tormenta, chiusi nelle mura solide come di una fortezza, i canonici pregano, cantano, celebrano solennemente la messa, contenti che in queste alte solitudini, come da un altare più elevato di tutti gli altri, quasi più vicino al Dio dei monti e dei ghiacciai, delle nevi e delle tempeste, s’alzi la preghiera della Chiesa.
E poi escono quei religiosi dal loro Ospizio solitario; qualche volta dalle finestre del secondo piano, tanto la neve è alta. Ne escono nelle rare giornate radiose, quando il sole scintilla nell’aria tersa e ferma, ed accende d’un’unica luce incandescente l’immensa candida distesa di ghiacci e di nevi; si legano gli ski, e salgono zigzagando i ripidi pendii, per volarvi sopra di ritorno a grandi colpi di racchette e saettare rapidissimi per le valli e le conche: qualche giorno, forse, come inebriante svago dopo la rigida e prolungata clausura; altre volte in rischiose imprese di salvataggio di viandanti in pericolo.
Ma per secoli, buono o cattivo tempo che fosse, i canonici hanno assicurato il service de la montagne, che oltre all’ospitalità gratuita di cibo e di alloggio, prestata a quanti si presentavano all’Ospizio, nella media di ventimila viandanti l’anno7, comprendeva l’assistenza agli stessi viandanti impegnati nell’ultima e più difficile parte del loro tragitto. All’inizio dell’inverno i religiosi segnavano il cammino più sicuro dalle valanghe conficcando nel terreno appositi paletti, che venivano rinnovati man mano che la neve li copriva. Ogni mattino un religioso o un marronier8, con un cane ammaestrato, scendeva per un cinque chilometri, fino all’Hospitalet, sul versante svizzero, dove alle dieci prelevava i viaggiatori provenienti dal Bourg o vi lasciava le provviste per quanti nella giornata vi potessero passare; e lo stesso si faceva per il versante italiano, dove però il compito dei religiosi veniva facilitato dall’opera dei soldats de la neige9 di Saint Remy e dal cantoniere di Fonteinte, incaricato delle corde fissate nei due punti più scoscesi del percorso. Siffatta tournée giornaliera era tutt’altro che scevra di pericoli, sia per i viaggiatori sia per i loro caritatevoli samaritani, spesso sorpresi dal freddo, la tormenta, il mal di montagna e soprattutto dalle valanghe; tanto che durano ancora, terrificanti, tra gli alpigiani delle due valli, i ricordi delle più gravi tra le numerose sciagure. Primavera del 1774: una ventina tra soldats de la neige e mercanti da Saint Remy arrivano faticosamente al Passo; ma appena sulla riva del lago una valanga romba dal Mont Mort e li travolge uccidendo tre uomini e tre cani. Dicembre del 1816: la montagna è stracarica di neve che da undici giorni cade senz’interruzione; quattro uomini partono dall’Ospizio verso Bourg e due da Bourg verso l’Ospizio per incontrarli; ma s’incontrarono solo nell’altra vita, perché una valanga alla Combe seppellì i primi, e un’altra alla Tsusse i secondi. Novembre 1874: all’Ospizio, inaspettatamente, tra i sibili della tormenta si ode un raspare e un rauco latrare. Stanco, fradicio di neve disciolta, un cane è alla porta. Solo: perché solo era riuscito a liberarsi dalla valanga di Comba Marchande che aveva ucciso cinque operai valdostani, il marronier Margherettaz e i due canonici Contard e Glassey. Anno 1926: tre canonici vengono inghiottiti dalla neve. Il 19 dicembre 1951 è la data dell’ultima sciagura. Un gruppo di valdostani, bloccati all’Ospizio per due giorni dalla neve, chiedono assistenza per tornare a fare il Natale in famiglia. Un canonico, sciatore diplomato, coraggiosamente si offre. Li guida fino alla Comba di Barasson; quivi, visto che la montagna «è carica», li fa sostare e, bussola alla mano, parte solo per aprire una pista. Ma l’aspettarono invano di ritorno: a cento metri dal passo una valanga l’aveva sepolto. Solo dopo sei ore di ricerche fu trovato: morto, in piedi, con un braccio in alto. Si chiamava Lucien Droz; era clavendier dell’Ospizio; aveva ventinove anni...
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Pare che il progresso si sia incaricato di cancellare a gran colpi questa fisionomia storica, la vera, del Gran San Bernardo. Nel 1892 sul versante svizzero e nel 1905 su quello italiano la strada divenne carrozzabile: d’allora l’accesso reso più facile ha fatto arrivare quassù numerosi i fannulloni e gli svagati. Dopo la prima guerra mondiale l’Ospizio venne collegato telefonicamente coi rifugi dei due versanti, il che rese quasi superfluo il service de la montagne invernale; poco dopo, le automobili, prima quelle private e poi quelle dei servizi pubblici, cominciarono a rovesciare quassù a migliaia nelle belle giornate d’estate i curiosi e i giramondo, i quali per il loro numero resero impossibile la tradizionale assistenza, gratuita e per la loro qualità la resero anche inutile e dannosa. Allora, per questa gente eteroclita, si apri al Passo non più solo l’antico Ospizio, glorioso per la sua assistenza per amor di Dio, ma anche un albergo, dove si può dormire e mangiare per quel che si paga10.
Questo rapido tramonto di tradizioni venerande e di tutto un mondo che le spiegava, dà un senso di nostalgica tristezza. La leggi negli occhi dei religiosi che restano quassù, che si sentono come sopravvissuti ad una realtà ormai passata. Un simile senso di vuoto dovettero provare gli antichi cavalieri degli ordini militari, quando, tramontati i tempi della difesa armata dei baluardi della civiltà cristiana, si videro diventate inutili le belle armi che indossavano; e lo stesso senza dubbio provarono i votati alla redenzione degli schiavi quando, nell’evoluzione della civiltà, si trovarono ormai reso impossibile l’esercizio della loro vocazione eroica. Seguendo lo stesso processo di quegli antichi religiosi, che presto adattarono il loro desiderio di apostolato ad altre forme di assistenza più consone ai tempi mutati, sebbene meno proprie alla loro vocazione primitiva, i canonici del Gran San Bernardo hanno cercato altrove nuovi campi per il loro lavoro, per esempio nell’attività parrocchiale (nove parrocchie nel versante svizzero) e nell’educazione della gioventù (il collegio Chapittet a Losanna e una scuola agricola ad Aosta); ma il loro cuore resta sulla montagna, dove tornano entusiasti a fare il loro apostolato caratteristico appena vi ritrovino le condizioni che già ne dettero l’idea e la spinta al loro Fondatore. Sicché, quando nel 1929 il papa Pio XI indicò loro queste condizioni niente meno che nel Tibet, subito dal Gran San Bernardo partirono due canonici in viaggio di esplorazione. Ritornati essi con buone notizie, ne ripartirono non più in due, bensì in quattro nel 1933, raggiunti da altri tre nel 1936, col compito di costruire un ospizio sul Passo di Latza, a 3.800 metri di altezza, punto d’incontro di tre frontiere: della Cina, della Birmania e del Tibet. L’ardita impresa, portata innanzi tra enormi difficoltà di uomini e di cose, sarebbe ormai già condotta a termine se i religiosi non ne fossero stati impediti prima dai lama buddisti, che nel 1949 ammazzarono il canonico Maurizio Tomay, e poi definitivamente dall’irruzione delle truppe comuniste di Mao-Tse Tung11.
Però non solo questo mondo che tramonta dà ai religiosi dell’Ospizio e ai suoi visitatori, capaci di penetrare oltre le semplici apparenze di questo fenomeno, un senso di accorata tristezza, ma anche l’elemento ideologico pagano che vi soggiace e si tradisce in questa positura di battaglia, se non di vittoria, contro tutto il sacro patrimonio cristiano. Infatti, l’installarsi di Bernardo da Mentone su questo colle ebbe il significato di una vittoria della preghiera e della carità cristiana sull’egoismo, il naturismo e la violenza pagana; questo dice nel suo muto linguaggio la bronzea statua del santo col suo innalzarsi proprio sulle rovine del tempio di Giove Pennino e col mostrare ari suoi piedi il dragone atterrato ed ucciso; questo chiaramente notava Pio XI nella lettera in cui, prima di designarlo come patrono e protettore degli alpigiani e degli alpinisti, faceva le lodi del santo12. Ma oggi anche quassù il dragone del paganesimo si riscuote e prende posizioni di rivincita. Intanto, proprio al sommo del Colle, è riapparso il nome pagano di Mont Joux, dato ad una costruzione vicinissima all’Ospizio; e non è solo questione di nomi: se, ancora qualche anno fa, la campagna isolava la corruzione della città come con una. fascia di sanità morale, se alcune brutture erano ancora vergognoso monopolio di certe spiagge e di certi circoli semiclandestini di snob o di pervertiti, oggi ormai queste brutture avanzano senza più alcun ritegno per le grandi vie di comunicazione. Courmayeur, Chamonix, Vallorcine, Entremont: non c’è valle qua intorno di un certo nome dove ormai il gran mondo non vi pratichi senza pudore e senza misura il nudismo, imitato da turisti e da villeggianti di tutti i ceti, che non si fanno uno scrupolo di sdraiarsi sulle praterie a vista di tutti, di passeggiare per le strade, di viaggiare nelle corriere e nei treni in tenute non sai se più ridicole o sfrontate; e così discinti scendono dai torpedoni, senza un’ombra di rispetto, anche quassù: bambini in costume da bagno, uomini che trovano di buon gusto mettere in mostra tutta la loro corpulenza e le gambe pelose coprendo appena la loro nudità con vestiti mezzo da carnevale e da circo: donne di tutte le età che si presentano in bretelle, o scosciate nei loro ridottissimi shorts, o si pavoneggiano sotto enormi cappelli a pan di zucchero e a larghissima falda: alla foggia messicana, o a capanna di paglia grezza: alla foggia indonesiana; e in queste tenute da Capri o da Gran Lido, tentare l’accesso all’Ospizio e alla chiesa, incuranti del cartello che ammonisce le eteroclite bagnanti che qui si è in una casa di carità e di preghiera, ed incassare la proibizione di entrarvi con un’aria di stupida meraviglia e di svergognata spudoratezza... È anche quassù un rivelarsi d’un mondo di leggerezza, d’insensibilità morale, di ricerca del piacere, del godimento della natura, che si fa una gloria di rompere o di dimenticare tutti i freni e tutti i limiti del cristianesimo, e che col chiasso, coi colori e col riso di cui si para, chiaramente prende posizione contro la modestia, la mortificazione e l’attesa del regno eterno predicata dal vangelo di Gesù Cristo...
I canonici lasciano che questo mondo frivolo e pagano se ne scenda a valle rapidamente, come rapidamente rigurgita fin quassù; guardano fiduciosi la statua del loro fondatore; guardano ed osservano in silenzio, pensierosi. Meditano su d’un piccolo particolare che hanno letto nel racconto dei primi loro due inviati del 1929 al Passo di Latza: quando alle frontiere del Tibet, un gruppo di lama buddisti incrociò la piccola carovana dei missionari e gridò più volte in tono di sfida: «Lha Gyalo! Lha Gyalo!: Gli dei sono vincitori!», la piccola carovana si arrestò: la guida si rizzò sulle staffe e gridò con tutta la voce: «Uno solo è il Dio vincitore: Gesù Cristo!»13. Essi avvertono la sorprendente e dolorosa somiglianza che c’è tra questa gente e i pagani anche di nome del Tibet, di cui scriveva il loro confratello martire canonico Tornay: «Ecco il nostro lavoro: portare a Cristo queste anime che forse sono le più lontane dal suo spirito, che non capiscono nulla, proprio nulla della semplicità del suo vangelo, che si sentono perfettamente soddisfatte dei beni di questa terra, che non sentono nessun bisogno di Dio...»14.
Ma poi pensano i canonici del Gran San Bernardo che, malgrado alcune apparenze, il vincitore degli dei pagani a queste altezze resta ancora Gesù; e resterà finché, al materialismo e all’egoismo dei figli del mondo, i seguaci di Gesù continueranno ad opporre, come in passato, le armi divine della preghiera e della carità.
1 Questo tempio e i due edifici di alloggio che lo fiancheggiavano furono distrutti durante le invasioni barbariche verso il 400 d.C. Nel secolo VIII un ospizio, affidato si crede ai benedettini, fu costruito a Bourg St. Pierre: ma presto fu distrutto dai saraceni.
2 Molto scarse sono le notizie sicure sul santo. Pare ch’egli sia nato verso il 996, e morto nel 1081 o 1086, a Novara, il vescovo della quale città l’inserì nel locale catalogo dei santi, donde passò nel Martirologio romano nel 1681. Pio XI nel 1923 lo dichiarò patrono degli alpinisti. Al santo si attribuisce anche, ma senza documenti sicuri, la fondazione dell’ospizio del Piccolo San Bernardo sul passo omonimo, che mette in comunicazione la Valle d’Aosta con quella dell’Isére; esso in ogni modo passò alle dipendenze dal Gran San Bernardo nel 1466, e vi rimase fino al 1752, quando con la decisione di Benedetto XIV, che metteva fine alle contese tra la Casa Savoia e i canonici agostiniani, fu secolarizzato.
3 Cfr G. LEFEBURE, Napoléon, 2ª ed., Parigi 1941, pp. 91-92. Egli fa eco al sintetico giudizio che ne dette già ai suoi tempi il Botta: «Questa battaglia, che cambiò le sorti dell’Europa, e la fece andare pel medesimo verso per quattordici anni, fu piuttosto guadagnata dai francesi che da Buonaparte, avendo essi col valore loro emendato gli errori del capitano» (C. BOTTA, Storia d’Italia dal 1789 al 1814, lib. 20, Parigi 1837, pp. 29-30).
4 L’ospizio del Sempione, che si leva a 2.000 metri sul livello del mare, a un centinaio di metri dal Passo, fu iniziato appunto per disposizione dell’imperatore; ma, terminato solo dopo la sua caduta, fu poi pagato tutto dai canonici. Prima del 1906, data dell’entrata in esercizio della galleria omonima, contava un media di 12.000 passanti l’anno; l’opera di assistenza gratuita ora è in gran parte cessata: anzi, da qualche anno l’ospizio d’inverno resta chiuso; per i turisti, come sul Gran San Bernardo, c’è un albergo a pagamento.
5 Che poi non sono affatto monaci, ma canonici regolari, sotto la regola di sant’Agostino. Loro segno distintivo è un doppio nastro bianco che, pendendo sul petto e sulle spalle, si riunisce sotto la fascia sul fianco sinistro. È ciò che resta dell’antico rocchetto canonicale. Il loro superiore generale, detto prevosto, risiede a Martigny; ogni ospizio è retto da un priore ed amministrato da un clavendier; al ricevimento degli ospiti è deputato un aumonier.
6 Recentemente un film, che ha fatto un certo chiasso, ha ulteriormente popolarizzato questi cani, drammacizzando la storia di uno di essi, di nome Barry, che nel secolo passato salvò una quarantina di viaggiatori, l’ultimo dei quali, un vecchio soldato delle campagne di Russia, presa la povera bestia per una belva, l’uccise. Ai turisti, e specialmente ai loro bambini, che ricordando il film, chiedono dove si trovi la salma del bravo Barry, i canonici pazientemente spiegano che tra i cani del Gran San Bernardo sempre ce n’è uno, il più bravo, che si chiama Barry; che uno dei tanti Barry, imbalsamato, si trova nel ripiano della scala centrale dell’Ospizio, un altro al museo di Baie, e ad un terzo hanno fatto addirittura un monumento.
7 Per esempio nel 1817 vi furono distribuiti 34.863 pasti o razioni. Una carità di sì vasta misura certamente non sarebbe stata possibile se i canonici non avessero potuto contare sulle vastissime possessioni che principi, papi e fedeli avevano dato loro. Già nel 1177 una bolla di Alessandro III enumerava ben settantasette tra benefici e possessi dell’Ospizio, sparsi dalla Sicilia in Inghilterra.
8 Si chiamavano così i laici al servizio dell’Ospizio. Con un termine simile, marron, nei tempi andati si designavano nelle Alpi Occidentali gli addetti ai carriaggi e alle slitte invernali.
9 Erano detti soldats de la neige i giovani di leva di Saint Remy, nel versante italiano, i quali, per un privilegio risalente almeno al 1273 e rinnovato nel 1627, erano esenti dal servizio militare purché prestassero il loro aiuto ai viandanti diretti o di ritorno dai! Passo; privilegio che fu abolito solo nel 1927.
10 Nel 1850 il governo svizzero intraprese lo scavo di una galleria per una carrozzabile sotto il Monte Menouve, appositamente per deviare il traffico dal Colle e obbligare così, come difatti poi avvenne al principio di questo secolo per il Sempione, all’inattività quasi completa l’Ospizio; e voleva con ciò punire i suoi canonici «rei delle guerre del Sonderbund»; ma la perforazione s’addentrò nella montagna solo per pochi metri e poi fu definitivamente abbandonata.
11 Cfr P. CROIDYS, Du Grand-Saint-Bernard au Thibet, Parigi 1949; R. LOUP, Martyr au Thibet (Maurice Tornay), Friburgo 1950.
12 «Così Satana s’era insediato alle porte d’Italia. Ivi rimase a lungo, e cacciatone vi ritornò, finché ne fu allontanato per sempre per merito di san Bernardo. A lui infatti senza dubbio si deve se i saraceni, che avevano occupati quei gioghi, e li avevano resi pericolosissimi per i loro brigantaggi e razzie, e vi avevano rinnovata l’onta dell’empietà idolatrica, furono costretti a sloggiare, togliendo così ogni sporcizia di culto pagano» [A.A.S. XV (1923), p. 440].
13 P. CROIDYS, op. cit., p. 78.
14 R. LOUP, op. cit., p. 102.