Articolo estratto dal volume III del 1954 pubblicato su Google Libri.
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Chi vuole assistere a spettacolo mai visto si rechi a Viterbo nel pomeriggio del 3 settembre. Vi vedrà meraviglia che è oggetto più di leggenda che di storia, se è vero che solo nelle leggende i campanili ne vadano a spasso per il mondo. Orbene: a Viterbo questo avviene, da secoli, ogni anno, alla vigilia di santa Rosa, e costituisce il numero più atteso di una delle più colorite sagre d’Italia.
Le origini della popolarissima festa si riallacciano a uno dei pochi avvenimenti criticamente accertati nella storia della santa patrona di Viterbo, cioè alla solenne traslazione della sua salma, fatta dal pontefice Alessandro IV, il 4 settembre 1258, da Santa Maria in Poggio, luogo della sua prima sepoltura, alla chiesa di Santa Maria, annessa al monastero delle clarisse, ove ancor oggi è venerata. A perpetuarne il ricordo, fu allora stabilito che negli anni seguenti la processione si sarebbe ripetuta, portandosi in essa in trionfo non più il corpo ma una statua della santa; lasciata quindi all’ispirazione popolare, tanto più fantasiosa quanto più sentita, la semplicità primitiva della processione si sarebbe svolta con apparato di solennità di anno in anno più grandioso, superato solo dal parallelo processo di esagerazione con cui la stessa ispirazione popolare nei secoli trasformava l’umile vita della diciottenne verginella in una mirabolante canzone di gesta, popolata di spiriti e fragorosa di armi e di armati.
Ma raccontiamo, se possibile, le cose con ordine.
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Gli avvenimenti certi nella vita della santa si possono ridurre a una decina. Nascita a Viterbo negli anni 1233-1235, da una modesta famiglia di lavoratori; vita ritirata ed oscura fino all’età di diciassette anni; malattia, guarigione e visioni soprannaturali nell’estate del 1250; vestizione dell’abito del terz’ordine francescano ed apostolato pubblico; esilio suo e della famiglia a Soriano al Cimino il 4 dicembre dello stesso anno; suo passaggio per Vitorchiano verso il Natale e sua rientrata in Viterbo nei primi del 1251; santa morte ai sei di marzo del 1251 o 1252; traslazione della sua spoglia, come s’è detto, nel 12581.
Su questo esiguo nucleo di verità pietà di biografi e fantasia di panegiristi svilupparono la più fantastica delle vite «mirabili». La santa fu predicata come concepita miracolosamente e da genitori nobili ma decaduti; taumaturga a tre anni, maestra di perfezione a cinque; appena settenne già vestita terziaria francescana con una tunica approntatale personalmente dalla Madonna; a otto anni la precocissima Giovanna d’Arco avrebbe difeso le mura di Viterbo contro l’esercito di Federico II; quivi, un giorno, ferita al braccio da una freccia, se la sarebbe estratta coi denti ed avrebbe continuato a porgere pietre ai difensori. Terrore dunque dei nemici, e in particolare di Pier delle Vigne, cancelliere di Federico II; ammirazione del popolo, nonché del papa, il quale, di dieci anni la nomina predicatrice apostolica, anzi ne ordina senz’altro il processo di canonizzazione2. Scesa dagli spalti, per otto anni avrebbe predicato nelle piazze e nelle chiese, di giorno e di notte, operato conversioni in massa tra quanti, non solo di Viterbo e dintorni, ma d’Italia e di Provenza, accorrevano ad ammirarne la scienza infusa; una grossa pietra le avrebbe funzionato da ascensore; ventidue giorni di digiuno non l’avrebbero indebolita, tre ore di fuoco non l’avrebbero consunta. Federico II in persona la condanna all’esilio; alla sua morte per una giornata intera le campane del monastero suonano senza che mano d’uomo le tocchi. una rosa freschissima spunta sul pavimento della chiesa ad indicare il luogo, ormai ignorato, della sua sepoltura...
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Siffatti voli di fantasia, che dovettero far fremere d’invidia le ingenue ossa dell’arcivescovo Giacomo da Varazze, per merito principalmente del quattrocentesco anonimo autore della Vita Sanctae Rosae viterbiensis 3, degli Acta processus canonizationis Rosae Viterbien. anno 1458 celebratae 4 e, ancor più, di Girolamo Vittori 5 e di Pietro Coretini 6 che li divulgarono in italiano, nella prima metà del secolo decimosettimo avevano toccato il loro culmine più alto; e proprio in quegli anni la «macchina» della santa cominciò a crescere, a crescere, come se non convenisse ad una patrona sì straordinaria e alla nobile città che l’ospitava la pompa ordinaria con cui fin allora era stata onorata. I disegni e le stampe del Museo civico, salvati dalle distruzioni dell’ultima guerra, testimoniano ancora le fasi della sua evoluzione, che va dal modesto baldacchino originale all’altissimo pinnacolo odierno.
Il più antico dei disegni conservatici è quello del Franceschini, appunto del secolo XVII. Riproduce un nicchione a violoncello, in cui è allogata la statua della santa, ricavato fra due anse lignee, che poggiano su di un alto zoccolo, dal quale due candelabri, con un centinaio di candele ognuno, si avvolgono a spirale fino a raggiungere il fastigio della nicchia, inquadrato da due angeli oranti. Tutta la costruzione lignea non doveva superare i sei o sette metri di altezza. Ma con l’andar degli anni si alzarono e si moltiplicarono i ripiani tra zoccolo e nicchia terminale, e, specialmente dopo il voto con cui Viterbo ringraziò la santa, che l’aveva preservata dalla peste del 16547, i costruttori corsero decisamente verso il sempre più ornato e il sempre più difficile, naturalmente ubbidendo al variare delle mode e dei gusti dei tempi. Si videro cosi torri barocche, a tre, quattro, cinque e più piani, cariche di statue, medaglioni, candelabri, cartigli, mensole e corniciature; campanili neo classici a uno o più ordini, simulanti il marmo e il bronzo negli zoccoli, nei riquadri, nelle colonne, nelle paraste, nei timpani, su su fino ai sottili piedistalli, dai quali spiccavano il volo angeli e putti; plutei massicci, minareti svettanti, stramberie di stile e di mole: come quella del 1856, quando, per amore del nuovo ad ogni costo, si mandò in giro una specie di pagoda cinese, e il tour de force di Angelo Papini, che nel 1821 riuscì a mettere insieme un’architettura di cento colonne, ventiquattro piramidi, trenta statue e trecentocinquanta fiaccole... Ma lo stile che a varie riprese fu preferito fu il gotico, che per il suo spinto verticalismo si prestava bene ad una costruzione architettonica sviluppata in altezza, e che col suo giuoco di bifore e di trifore, guglie e pilastri, fasci di colonne ed archi reggispinta, dava facili effetti di saldezza e di leggerezza, di pieni e di vuoti, rilevabili nel gioco sapiente delle luci nella notte.
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Consideri ora il lettore che la «macchina» è stata sempre trasportata a spalle d’uomo, ed immagini la fatica sotto cui dovevano iodurare i «facchini»8 incaricati della bisogna, quando la macchina, bardata a quella maniera, raggiunse e sorpassò i dodici, i quindici e i diciotto metri di altezza e il peso di diverse decine di quintali; e tenga presente che il numero dei portatori non poteva crescere proporzionalmente al peso, sia per non complicare troppo le manovre già difficili, sia perché non era possibile aumentare la larghezza della base della costruzione che doveva rigirarsi nelle vie strette e tortuose della Viterbo medievale.
Alcune disgrazie letali consigliarono costruttori ed organizzatori a conciliare la devozione e l’estro col giudizio e la prudenza. La più disastrosa di tutte avvenne nel 1801. Approfittando della calca, alcuni borsaiuoli tentano di derubare una donna. La poveretta, nel difendersi, cade a terra. I cavalli dei dragoni, che precedono la banda, si adombrano; la folla, presa dal panico, fugge travolgendo uomini e cose. Sul momento i facchini riescono a star calmi, sostando a lungo sotto il peso della macchina, e, bene o male, si rimettono in cammino, portandosi sino in Piazza delle Erbe. Altre due tappe e la loro fatica è al termine. Ma era scritto che quell’anno Ie cose dovevano volgere al peggio. La caduta di una fiaccola, infatti, rimette in subbuglio la folla già agitata: grida, pugni, ressa furibonda verso i portoni e le stradette laterali. I facchini, già troppo affaticati e nervosi, non resistono più: lasciano andare la mole, che cade sulla folla terrorizzata e s’incendia. Bilancio della tragica festa: ventidue morti, tra i quali alcuni prelati e quattro canonici.
Ce n’era abbastanza per muovere all’azione il delegato apostolico; il quale ricordò al Comune che «è precetto divino non tentare il Signore» e che «i miracoli sono espetibili e sperabili nelle necessità, ma non mai negli atti di mera volontà». Clero e patrizi dal canto loro, con meritoria prudenza, decisero di sdoppiare la processione in due, riservandosi di prender parte attiva solo a quella liturgica, diurna, con la reliquia della santa, più devota e meno pericolosa, e di assistere solo come cautelati spettatori a quella popolare e notturna con la macchina.
La quale macchina, però, per quanto ridotta in altezza, costituì sempre un certo rischio per i portatori e per gli spettatori, appena appena le forze e la maestria dei primi venissero messe a prova da imponderabili errori di manovra o da imprevedibili mutamenti atmosferici lungo il percorso. Il primo caso si verificò il 3 settembre 1814, giorno in cui appunto un’errata manovra proprio al momento della partenza, fece cadere all’indietro la macchina causando la distruzione di essa e della tettoia che l’aveva protetta durante la costruzione; e il secondo avvenne nel 1820, quando, giunta a mezzo il Corso ed investita da subita furia di tramontana, la costruzione si abbatté avanti al Palazzo Bussi, facendo una strage di facchini...
Naturalmente le disgrazie non dissuasero i viterbesi dal cimentarsi nella loro annuale impresa; anzi, come suole avvenire, tra i giovanotti più robusti e spericolati il «facchinaggio» continuò ad essere conteso come un privilegio, e il rischio, nonché evitato, qualche volta venne cercato a bella posta; per esempio con l’eseguire l’inchinata avanti al Sommo Pontefice le volte che il capo della Chiesa e dello Stato assisteva alla festa. Disgrazie, per quella cerimonia spericolata, non vi furono mai; ma la storia non dice con quale trepidazione i vecchi pontefici, affacciati al Palazzo del Comune, vedessero le altissime torri oscillanti arrestarsi e strapiombare verso di essi, e con quanto sollievo, le rivedessero sollevarsi in piombo ed allontanarsi9.
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Oggi i rischi sono di molto diminuiti, grazie ai sussidi della tecnica moderna, che hanno permesso di alzare macchine leggere, robuste e stabili, pur portandole ad altezze mai raggiunte in passato. La macchina odierna, infatti, costruita nel 1952, anno centenario della morte della santa, ha raggiunto l’altezza spettacolare di ventisette metri; eppure ha il baricentro ad appena sette metri dal suolo, e nel peso non supera i trentadue quintali10. L’armonico accordo di queste misure è stato ottenuto abolendo quasi del tutto il legno e supplendolo con un’armatura di tubolari d’acciaio saldati, rivestendola poi con pannelli in tela, piani e divisori in compensato, ornamentazioni e rilievi in carta pressata. Ma non equivochi il lettore! Ché quei trentadue quintali rappresentano per ognuno dei circa ottanta facchini che li portano un peso di circa mezzo quintale, ma che con gli inevitabili squilibri della macchina, specialmente sulle «spallette» e sulle «stanghette», può variare fino a molto più di un quintale, da trasportare in una posizione quanto mai scomoda e in una massa compatta di corpi che, mentre impedisce qualunque libertà di movimento, raddoppia il disagio del buio e della calura. In queste condizioni la macchina deve percorrere più di un chilometro, parte in discesa, parte in piano e l’ultimo tratto, di circa centocinquanta metri, in forte salita; e tradizione vuole che proprio quest’ultimo venga superato di corsa, sì da migliorare, se possibile, i tempi record degli anni precedenti. Di solito non si passano i 75-72 minuti secondi, vale a dire che i facchini segnano una media di circa otto chilometri l’ora: bella velocità anche per un camminatore che se ne vada senza pesi e in piano.
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Lo spettacolo ha luogo a notte fatta, ma fin dal primo pomeriggio tutta la cittadina si anima, sia per seguire o assistere alla processione liturgica della reliquia della santa, sia per l’apparire del plotone dei facchini, i quali alle tre in punto cominciano la visita rituale a cinque chiese di Viterbo. Sono in massima parte contadini, operai, artigiani; non manca qualche studente universitario. Sono tutti saldi e gagliardi; solo i due capifacchini e le quattro guide possono supplire con l’esperienza un manco di tempra fisica. Tutti vestono la divisa tradizionale: scarpe nere, calzerotti bianchi attillati, calzoni pure bianchir rigonfi e allacciati sotto il ginocchio; larga fusciacca rossa alla vita, casacca bianca e fazzolettone bianco in testa; a tracolla il caratteristico «ciuffo», che è una borsa di cuoio giallo, numerata, con cuscinetto di lana, da infilarsi nella testa perché le stanghe della macchina non straccino la pelle viva del collo e delle spalle. Mamme, spose e fidanzate li guardano orgogliose; bambini e adolescenti li seguono ammirati; uomini attempati li osservano e sospirano, raccontando, ogni anno più nostalgicamente, i record toccati quando sotto la macchina, con quella divisa spavalda, ci andavano loro...
La prima visita è alla patrona della festa: Santa Rosa; poi vanno alla S.ma Trinità e a sant’Angelo, indi a Santa Maria Nuova e a San Giacomo11. In ogni chiesa fanno una breve preghiera, ascoltano due parole di esortazione e di augurio dell’ufficiante e lanciano un gioioso saluto alla voce; poi se ne vanno allegri e rumorosi. A San Giacomo, – non si sa mai! – ricevono l’assoluzione. Finito il giro vengono tutti chiusi in un unico locale e sorvegliati perché non cedano a imprudenze o stravizi, che potrebbero intaccare le loro forze.
Qualche minuto prima delle otto, eccoli di nuovo indrappellati recarsi a Porta Romana, dove, affiancata alla chiesa e alla torre di San Sisto, li attende la macchina, ancorata a due robusti cavalletti. Dopo le ultime raccomandazioni dei dirigenti, tutti i facchini prendono posto sotto le travature lignee che s’intersecano alla base della costruzione: i «ciuffi» al centro, le «stanghette» sotto i due trapezi anteriore e posteriore, le «spallette» sotto le due fiancate laterali. Qualche minuto di attesa: un seccò comando; e una lieve oscillazione avverte che la macchina non poggia più sui cavalletti. L’illuminazione pubblica si spegne. Accolta dallo scrosciare dei battimani, le grida gioiose della folla e le note altissime della banda, seguìta da un compatto cordone di soldati e di polizia, faro scintillante nel buio delle strade, l’aerea mole avanza; fa un quarto di giro su se stessa, e, lieve come un fascio di riflettore, scende i duecentocinquanta metri di Via Garibaldi fino a Piazza Fontana Grande. Qui sosta per un po’ di riposo. Un altro leggero ondeggiamento: la macchina è di nuovo sulle spalle degli uomini, ed imbocca la Via Cavour.
Vista dalla Piazza del Comune sembra un’apparizione irreale.
La diresti un’enorme stele di alabastro fosforescente, uno squarcio nel cielo nero attraverso il quale passi il riverbero di un incendio. Rapidamente la torre si avvicina. Si distinguono prima i punti fissi e lattescenti delle lampadine elettriche, poi le luci tremolanti e multicolori delle lampade a cera; indi prendono rilievo le colonnine tortili, gli angeli, gli stemmi. La macchina ingigantisce come sotto una carrellata, riempie di sé tutta la strada da palazzo a palazzo, ne supera altissima i cornicioni e gli attici, incombe minacciosa. Man mano che, avvicinandosi, si mostra a cerchi sempre maggiori di folla in attesa, scoppiano i battimani e gli «Evviva santa Rosa!» in un fragore e in un incalzare come di ondate sulla scogliera. Ma quando sbocca sulla Piazza, e di colpo appare intera anche alla folla che stipa tutte le vie che vi sboccano, il fragore sale alle stelle. Allora i facchini, eccitati, strafanno, e compiono la «birata». La macchina sosta un attimo, e poi gira vorticosamente su se stessa come su di un pernio. Il pubblico tace: lo diresti esterrefatto più che meravigliato. La mole è un caleidoscopio, una sarabanda di colori e di scintillii, un capogiro di ebbro che non sente più il proprio peso, che piroetta ondeggiando, sempre minacciando di cadere e sempre riprendendosi, finché non ritrova un appoggio sicuro, quando i facchini, sodisfatti, la ridepongono sui cavalletti predisposti. Solo allora riscoppiano gli applausi del pubblico, orgoglioso di tanto spettacolo. I facchini si raccolgono all’imbocco di Via San Lorenzo a bere il bicchiere di vino offerto dal Comune. Si sono meritati questo e altro: ma il Comune sa che il vino è traditore e taglia le gambe! .
Questa volta la macchina s’ingolfa nella Via Roma, e, dopo aver sostato in Piazza delle Erbe, s’incunea per il Corso, fluttua sul mare di teste che colma Piazza Verdi, fa un’altra «birata» e sta. Quivi i facchini bevono un secondo bicchiere, offerto dalla corporazione dei fornai, e si preparano all’ultima fatica: la più dura e la più bella.
La macchina si solleva e parte di corsa. Dopo pochi metri di piano, s’avventura per la salita. Sbanda indietro, si riprende; strapiomba in avanti, si riprende ancora. La folla sbigottisce, si rià, teme, grida, gioisce. Facchini e capofacchini si sfrenano, s’incitano a vicenda, si esaltano: chi nella confusione riesce ad ascoltarli assicura che si aiutano non propriamente con giaculatorie; accelerano il passo, corrono, volano, magari travolgendo chi non regge allo sforzo. Giunti sulla spianata, dopo un’ultima manovra, depongono la macchina, tanto sodisfatti quanto pletorici in viso e fradici di sudore. Sono le nove e un quarto: la rude fatica è durata un’ora e quindici minuti.
Ora guardano compiaciuti la loro gloria e il loro tormento, e ingenuamente pensano che non c’è al mondo meraviglia maggiore di quella; e poi, a malincuore, ridiscendono verso le vie della città di nuovo illuminate, acclamati ancora una volta dalla folla.
La macchina resta Il tutta illuminata a fare capolino sopra i tetti della città in tripudio. Ma poi le fiaccole si consumano, le lampadine si spengono; e quando, domattina, il sole l’illuminerà, l’incanto sarà svanito. Viterbesi e forestieri la troveranno un po’ carnevalesca con quei colori forti e la profusione della porporina sul legno e la cartapesta; la toccheranno, ci penetreranno sotto, ne vedranno la prosaica anima che la tiene su: un traliccio di acciaio rastremato, simile ai derrick del petrolio... Dopodomani la smonteranno, e i pezzi senz’anima saranno deposti nella chiesetta di Santa Maria della Pace. Quest’altr’anno la bella creatura risusciterà, ma a portarla ci saranno molti facchini nuovi, ché gli anni pesano e i giovanotti fanno ressa... Ma: via queste malinconie! Anche a Viterbo tutti i salmi finiscono in gloria e le osterie abbondano. I facchini se ne ricordano e vi accorrono per rifarsi della parsimonia con cui Comune e fornai li hanno abbeverati, tanto più che, se il vino taglia le gambe, ormai morbidi letti attendono gli eventuali stroppiati. Del resto non c’è da temere neanche questo, se i viterbesi di oggi non hanno tralignato dai loro padri, mille e duecento settantasei dei quali, nel 1876 fecero corona conviviale intorno a Garibaldi, e furono capaci di scolarsi, patriotticamente, la bellezza di ventitre ettolitri di vino, vale a dire un fiasco a testa senza ubriacarsi!
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La mattina del 4 settembre 1953 un grosso signore, capitato a Viterbo non certo per divozione a santa Rosa, portato dalla calca dei fedeli che con flusso continuo saliva al suo santuario, si trovò sulla spianata ai piedi della macchina. Esaminatala alquanto non gli ci volle molto a capire che quella non era una fabbrica stabile bensì una costruzione festaiola. Stentò però a credere che non fosse stata montata sul posto, ma trasportata, così ritta, a spalle d’uomo, dall’altra parte della città, gratis. Freddamente osservò che quella gli sembrava fatica sprecata, e per giunta grossolana superstizione da medio evo, quando con un camion si sarebbe potuto fare lo stesso trasporto senza fatica e senza rischi, sempre che valesse la pena spendere i soldi in costruzioni inutili come quella.
L’osservazione del mercante, ché tale doveva essere quel signore, non difettava di logica. Anzi ne abbondava troppo, supposto che l’unico utile apprezzabile su questo mondo sia il danaro, ed unico male da evitare sia la fatica non equamente ripagata dall’utile sopraddetto; e non è escluso che possa venir trovata giusta, o addirittura esposta in proprio da altri spettatori dall’anima mercantile, impreparati a comprendere lo spirito che vivificò alle loro origini questa ed altre simili numerose tradizioni popolari italiane, e che tuttora in gran parte le sostiene. Esse sono schiettissime manifestazioni di civiltà umana e cristiana, prima che di neutro e laico folklore. Antichi progettisti e costruttori credevano che questa terra è l’esilio e che il paradiso è la patria; sapevano che tra questo relativo e quel definitivo era possibile un dialogo, mediante il quale gli esiliati potevano chiedere ed ottenere, e gli arrivati potevano ascoltare e concedere. Grazia non era per quegli uomini un termine privo di significato. Era la misura di tutti i valori perché rapportava tutte le cose all’unico assoluto; perciò se ne assicuravano gli intercessori e i distributori, e per ottenerla, o per ringraziarli una volta ottenutala, ne onoravano le effigi, e non stimavano sperperato il danaro speso per assicurarsi i beni eterni. Cosi le sagre delle città erano le feste della patria. Il culto dei santi era il culto delle virtù cristiane; il loro trionfo tradiva l’anelito di credenti che non si sentivano a loro agio in un mondo insidiato dal peccato. Che se poi fede e pietà, con l’andar del tempo, divennero anche giuoco e rischio, a parte esagerazioni riprovevoli, vuol dire che quei credenti erano ancora capaci di poesia e di disinteresse: bambini, ai quali è promesso il regno dei cieli, non ancora decrepiti usurai, votati all’inumano culto di mammona.
La macchina di santa Rosa, che, a modo suo, a sette secoli dalla morte, canta ancora il trionfo di una ragazza povera e pura, se quei che la costruiscono, che la portano e l’ammirano sono ancora capaci di credere e di pregare un po’, come la santa credette e pregò, testimonia che nella terra non s’è ancora spento lo Spirito di Dio. Che se invece tutto si riducesse a folklore e a turismo, e l’anima di questo popolo esultante non fosse differente da quella di certe folle che plaudono esaltate al trionfo di pugili, di dive, di campioni, di saltimbanchi, o, peggio, di mostri, allora veramente tutta questa festa non varrebbe la pena di essere né montata né veduta. Tutto ciò sarebbe un anacronistico simbolo di un mondo di poesia e di santità, sopravvissuto, ahimè, nel più sconsolato squallore del calcolo e della materia.
1 Prendiamo queste notizie dallo studio esauriente di G. ABATE O.F.M. Conv.: Rosa da Viterbo, terziaria francescana, in Miscellanea Francescana, 52 [1952], pp. 113-278: e lo seguiamo anche nelle notizie bibliografiche che ricorderemo appresso.
2 Di fatto il processo di canonizzazione fu iniziato nel 1252, subito dopo la morte, e fu ripreso e chiuso nel 1457, sotto Callisto III; ma la santa non fu mai formalmente canonizzata, né solennemente né privatamente. Il suo nome compare nel Martirologio Romano solo nel 1583. Si può dire però che abbia avuto una canonizzazione equipollente, avendone goduto, sciente la Santa Sede, tutti gli effetti. Di massima importanza sotto questo rispetto l: la lettera di S.S. Pio XII al vescovo di Viterbo, del 25 febbraio 1952, in occasione del settimo centenario della morte della santa (cfr A.A.S. XXXXIV [1952], pp. 218-220).
3 Del secolo XV, detta Vita secunda, per distinguerla dalla Vita prima, di altro anonimo del secolo XIII, di massimo valore storico ma purtroppo mutila. Per i lesti integrali di tutte e due, cfr G. ABATE, op. cit., p. 27 ss; p. 232 ss.
4 Si trovano ancora manoscritti in Viterbo nel monastero di S. Rosa.
5 Nel 1616 scrisse la prima biografia della santa in italiano. Non fu mai stampata, ma ne ebbero il manoscritto per le mani molti studiosi e divulgatori. Si trova anch’essa nell’archivio dello stesso monastero.
6 Autore de L’Historia di S. Rosa Viterbese, raccolta dal suo processo, e da altre memorie autentiche, Viterbo 1638. Su di essa camminò la maggior parte dei compilatori posteriori.
7 Non sono mancati autori che appunto a questo voto fanno rimontare la storia della macchina e della sua solenne processione. Ma non rettamente, perché della macchina resta una menzione del 1624, e per la processione si conosce un decreto del 15 maggio 1512, che ne fissa la data in perpetuo ai 4 di settembre.
8 Con questo termine furono sempre chiamati i portatori della macchina. Recentemente fu proposto l’altro di Cavalieri di S. Rosa: ma non attecchì.
9 Come ultime presenze dei papi a Viterbo ai ricordano ’quelle di Gregorio XVI, nel 1841, e di Pio IX, nel 1857. Un Avviso della Magistratura di Viterbo, che reca questa data, assicura che: «All’imbrunire della sera dello stesso giorno tre, vigilia della festività di S. Rosa, splenderà di ricca luminaria a disegno la piazza del Comune, e ad ora conveniente sarà trasportata la mole trionfale della Santa, ornata di maggiore copia di decorazioni e di lumi che negli anni passati».
10 Le macchine non hanno avuto eguale durata di vita. Per la maggior parte vissero un anno solo; alcune tre anni; una venticinque. L’attuale pare che debba vivere cinque anni. È costata quindici milioni. Tutta su pianta ottagonale, s’imposta su di un solido zoccolo, e s’innalza per dieci piani, alternativamente ortogonali alla base e restremati. Sopra il primo piano, che è a riquadri ripieni, con otto episodi della vita della santa, gli altri, a giorno, girano su un grosso fusto centrale, e portano, tra esili colonnine tortili, angeli e stemmi. Nell’ultimo ripiano, a nicchia, è la statua della santa. Fiaccole e lampadine corrono tutt’intorno dal basamento alla croce terminale. I suoi pregi architettonici sono stati oggetto di polemiche. È innegabile però che di giorno, alla luce del sole, più che a un’architettura rassomiglia a un palo ornato; le colonne tortili, troppo sottili, sembrano tiranti, e le sue cartapeste ricordano molto quelle del carnevale di Livorno; ma di notte ottiene un suo mirabile effetto di leggerezza e di armonia.
11 Quest’ultima chiesa viene visitata invece di San Sisto, semidistrutta durante la seconda guerra mondiale.