NOTE
×

1 Catalogo ufficiale Fiera di Milano 1954. Vol. I: Elenco dei partecipanti per ordine alfabetico, pp. LII-972; Vol.II: Elenco dei partecipanti per ordine dei prodotti pp. CXXXII-1.102.
Fiera di Milano, bollettino quotidiano d’informazioni dell’Ente Fiera. Da questo bollettino estraiamo i seguenti dati di sviluppo della Fiera con la ripresa dopo la guerra:

Anno Totale
espositori
Espositori
stranieri
Visitatori Superficie
totale mq.
Stands
supericie
netta mq
1946 2.519 309 1.061.800 330.840 51.000
1947 5.018 1.150 2.490.000 81.806
1948 5.446 1.452 3.390.000 125.000
1949 6.554 1.858 3.200.000 334.000 143.000
1950 8.428 3.096 3.900.000 152.920
1951 9.173 3.045 4.200.000 155.000
1952 10.393 3.570 4.030.000 390.000 167.253
1953 11.486 3.543 4.290.000 187.258
1954 12.366 3.551 6.000.000 410.000 195.344

2 E di essi 37 anche con mostre ufficiali. Eccone l’elenco: Argentina (che figura a Milano per la prima volta dopo la guerra), Austria, Belgio, Brasile, Bulgaria, Canadà, Cecosìovacchia, Danimarca, Francia (con l’Algeria, il Marocco e la Tunisia), Finlandia, Giordania, Guatemala, Gran Bretagna, Grecia, Haiti, Honduras, Iran, Messico, Monaco Principato, Norvegia, Olanda, Pakistan, Polonia, Repubblica Dominicana, Repubblica Federale Tedesca, San Marino, Spagna, Svezia, Sud Africa, Svizzera, Turchia, Ungheria, U R.S.S. e Somalia.

MENU

Articolo estratto dal volume III del 1954 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Ci sono molti modi di visitare la Fiera di Milano. C’è, per esempio, quello del commerciante e dell’industriale, che vi vanno portati da un interesse professionale preciso, ne visitano solo i settori merceologici che li riguardano e se ne tornano via appena conclusi o avviati buoni affari; e c’è quello della grande massa dei visitatori, di quelli, per intenderci, che, specialmente nei giorni festivi, scendono dai treni notturni o mattutini, vi entrano, folla compatta, attraverso il primo ingresso che si trovano aperto davanti ridiscendendo dai tram e dagli autobus... Essi guardano tutto quello che incontrano, curiosi ed allegri come ragazzi in vacanza, liberi di spassarsela nel più fantastico paese dei balocchi. La più parte degli oggetti esposti restano per essi profondissimi misteri, che li mettono in soggezione avanti a loro stessi, sicché si sentono riabilitati quando, finalmente, si ritrovano al cospetto di cose e di apparecchiature meno lontane dalla loro professione o mestiere. Allora la modista o la cioccolataia, restate intimidite avanti alle blocchiere, ai battipali, al motore a reazione e agli arcani bottiglioni della Montecatini, sciolgono lo scilinguagnolo avanti ai foulard, ai mako, alle pellicce e alle confezioni per signora o per bambini, nonché avanti all’automatica per gianduiotti, all’impastatrice per torroni e alla contaconfetti; e l’operaio o il contadino, che hanno attraversato indifferenti i reparti dell’editoria, dei profumi, della R.A.I. o delle ceramiche d’arte, indugiano, commentano e spiegano euforici appena sono in vista chi della vulcanizzatrice rapida, chi dell’automatica per pressofusione delle materie termoplastiche, chi della sega a nastro per metalli e chi della mungitrice meccanica o della tritaforaggi; ma tutti, intanto, si affrettano a vedere più cose che possono, quasi per sfruttare alla corda la spesa straordinaria del viaggio e del biglietto d’ingresso e per garantirsi di restare il meno lontani che è possibile dalla verità quando, di ritorno dalla Fiera, diranno sodisfatti: «Ma abbiamo visto tutto!».

Tra le altre, però, c’è anche la maniera del pensatore, il quale ci va come a una scuola per studiarvi l’uomo e il suo mondo; e ne ritorna appagato appena ha in mano qualche elemento per scavare più profondamente nella conoscenza della società moderna. Questa maniera è stata la nostra; sicché, nel riferire che ora facciamo le nostre impressioni sulla trentaduesima edizione della grande impresa milanese (12-28 aprile 1954), lasciamo da parte ogni pennellata espressionistica ed ogni particolare aneddotico e intratteniamo i nostri lettori in una visione panoramica piuttosto che in una descrizione giornalistica d’occasione, che, del resto, sarebbe del tutto fuori tempo a più di due mesi dalla sua chiusura, avviandoli a considerare alcune realtà meno fuggevoli dell’effimera manifestazione che da quelle è come prodotta ed innervata.

* * *

La prima realtà avvertita dallo studioso di attività sociali è che ormai da anni la Fiera di Milano non è più un avvenimento a statura d’uomo; da almeno un decennio, infatti, essa sta passando l’esperienza che in grande scala negli ultimi secoli ha passato la cultura umana, la quale, specializzatasi oltre ogni previsione, ormai non c’è più un uomo capace di possederla tutta quanta, sia pure in sintesi, e ognuno si deve accontentare di esplorarne uno spicchio minimo, con, tutt’al più, qualche modesta apertura sulle zone limitrofe.

Era a statura d’uomo la Fiera di Milano nel 1920, quando, contando su di un capitale di quindici lire, apri la prima volta pochi baracconi sui Bastioni Venezia. Chi, come lo scrivente, la vide, poté esaurirne il contenuto con una modesta passeggiata, e riferirne senza timore di dimenticare particolari di rilievo. Allora, infatti, gli espositori furono appena 1.500 e la superficie occupata dagli stands non superava i 15.000 metri quadri; ed era ancora a statura d’uomo quando, nel 1924, accusò la prima crisi di crescenza, duplicando il numero degli espositori e trasportando le sue tende nella ex Piazza d’Armi, dove gli stands occuparono già 50.000 metri quadri. Ma in questi ultimi anni, come appunto avviene alle realtà che superano di molto l’uomo singolo, i dati di grandezza hanno cominciato a sfuggire alla visione diretta delllo spettatore, sicché chi vuole averli deve necessariamente raccoglierli e vagliarli a tavolino.

Facciamolo pure sulla scorta di due pubblicazioni ufficiali dell’Ente Autonomo Fiera di Milano1. Nel 1954 gli espositori sono stati 12.366, di cui 3.551 stranieri; i paesi e i territori presenti sono stati 502; novanta sono state le sezioni merceologiche; 800.000 i campioni in mostra, su di un fronte di 55 chilometri; gli stands hanno occupato una superficie di circa 200.000 metri quadri, sparsi su di un territorio di quarantun ettaro, corrispondente quasi alla superficie dello Stato Città del Vaticano; i visitatori sono stati circa 4.110.000, con la media di 280.000 al giorno e con punte massime di 600.000 giornalieri...

Questi dati, ed altri che si potrebbero agevolmente raccogliere, già eloquentissimi in se stessi, lo diventano maggiormente per lo studioso che li consideri come punti indicatori di una curva di crescenza pronunciatissima, e li rapporta ad altri dati che facilmente sfuggono al visitatore ordinario. L’editoria, che nel 1953 presentava una sola sfilata di botteghe sotto portico, quest’anno s’è presentata in un viale di 57 mostre; il mobilio e l’arredamento sono stati allogati in un palazzo costruito ex novo, che è il trentaquattresimo della Fiera; per la meccanica edilizia ed agricola sono stati approntati 20.000 metri quadri in padiglioni sotto tenda, primo passo per un nuovo palazzo stabile; quattro nuovi paesi o territori: l’Argentina, la Bulgaria, l’U.R.S.S. e il regno hascemita di Giordania sono stati presenti, e sette nuovi paesi hanno allestito mostre ufficiali al Palazzo delle Nazioni... Ci si domanda quali dimensioni raggiungerà la Fiera se continuerà a crescere con uguale ritmo e specialmente se vorrà impedire vistose emorragie (come quella del settore automobilistico, ceduto al Salone di Torino, e guelfo delle macchine utensili, al quale la stessa Fiera darà ospitalità nella sua stessa sede in settembre), le quali, se si ripetessero, le diminuirebbero l’universalità d’interessi che finora è stato uno dei suoi pregi maggiori.

Previsioni a parte, si può dire che la Fiera ha preso sempre più netta e inconfondibile la sua fisonomia propria. Abolito quasi del tutto quanto una volta aveva di precario e di festaiolo (da tre anni felicemente ha soppresso anche tutta la réclame per mezzo di altoparlanti, e tutta la musica gazzarrona, che sapeva troppo di baracconi zingareschi), è diventata qualcosa di estremamente serio e rappresentativo nella vita economica ed industriale della città, della nazione e, si può dire, del mondo. Prescindendo anche dal giro enorme di danaro che causa col suo allestimento e la sua gestione, nonché col l’afflusso sì ricco, sì rapido e sì vario dei visitatori, essa è un punto d’incontro ormai obbligato delle correnti affaristiche mondiali, il maggior osservatorio mercantile e scambistico produttivo e commerciale, «un centro di supernazionalità, dove tutti gli uomini di affari si trovano a casa loro» (on. Benvenuti), una cattedra «dove si fa la storia anno per anno del lavoro umano» (on. Gasparotto); e una storia che non indugia sulla teoria, ma ne accelera il moto evolutivo già rapidissimo, raccorciando e quasi del tutto annullando le distanze tra inventori, industriali, commercianti e consumatori, stimolando l’emulazione e la concorrenza degli uni, creando o accentuando i bisogni degli altri, e in definitiva avviando la gran massa del pubblico verso forme di vita livellate su piani sempre più alti di diffuso benessere e di civiltà.

* * *

La gran massa dei visitatori, come s’è detto, è composta di generici, che si muovono tra i padiglioni della Fiera con la curiosità spensierata dei ragazzi, i quali vanno in cerca di cose grandi, di oggetti che si muovono (e se fanno fracasso tanto meglio), nonché di cose nuove; e la Fiera li serve tanto bene che chi ne uscisse deluso bisogna proprio dire che è incontentabile. Il colossale infatti vi abbonda. C’è la locomotiva Breda lunga venticinque metri, la maggiore finora costruita in Europa, e c’è il guscio del batiscafo di Piccard, fatto per resistere a un numero iperbolico di atmosfere; c’è l’albero d’elica dell’Ansaldo lungo ventidue metri e gli escavatori con cucchiaie e secchie capaci di metri e metri cubi, e perciò di tonnellate e tonnellate di scasso; c’è il mostruoso camion russo, che col suo cassone da venticinque tonnellate ribaltabile non sembra un camion ma un palazzo, e c’è il semistatore di alternatore sotto il quale il pubblico passa come sotto un arco di trionfo... e via di questo passo. In quanto poi a cose che si muovono...: trenini elettrici che corrono, scambiano, si nascondono, si sorpassano, s’inerpicano in aeree spirali, tra l’occhieggiare di luci bianche, rosse e verdi; fracassosissime tessitrici e spolettatrici; bambole vanitose, piccole e grandi, che camminano tenendosi per mano e girano con civetteria gli occhi ladri; dischi di carborundum che tagliano l’acciaio come fosse legno in una farandola infernale di scintille e di stridori laceranti; macchine dai movimenti silenziosi e come rituali, quali le fialettatrici, le linotype, le pressofonditrici; e macchine impazzite in un ruotare furibondo, quali quelle per cordare e per trecciare ; ed ancora: zangole e verricelli, montacarichi semoventi e schedari automatici, molazze e frullatori, filobus giroscopici e imbottigliatrici, telescriventi, betoniere, affilatrici... fino alla sempre presente automatica per sigarette, che da ,una parte ingoia tabacco biondo e fragrante e dall’altra mette in fila pacchetti lucidi di cellofane. Vengono poi tutti gli apparati mobili escogitati dalla réclame: dalle piattaforme girevoli, su cui si pavoneggiano compiaciute e belle signore o scapigliate coppie in motocicletta, alla corda oscillante su cui un motor-scooter, montato da una gentile figliuola, fa miracoli di equilibrio; alle strade mobili, che scorrono sotto un ciclomotore, simulandone la marcia velocissima e molleggiatissima, alle estrose combinazioni di getti d’acqua e di sorgenti luminose, nonché di fiamme che levitano su laghetti cerulei o ruggiscono rabbiose da bruciatori a pressione, dando, specialmente ad alcuni angoli della Fiera, un colore particolarmente suggestivo.

Ma non ci vuol molto ad accorgersi che l’uomo medio di oggi non è quello di una volta. Egli guarda, si, compiaciuto, ma stenta a meravigliarsi, anche se gli raddoppiassero o triplicassero le misure di quanto gli si mostra. Fiducia cieca nel potere della sua tecnica o ignoranza delle reali difficoltà, che, oltre un certo limite di grandezze, aumentano smisuratamente? Forse l’uno e l’altro. Ma la verità è che egli quasi si crederebbe defraudato del suo, l’anno in cui Milano non gli mostrasse almeno tante novità quante l’anno precedente, e, senza andarsene, sta in guardia per non mostrarsi così ingenuo come ancora pochi anni fa, che rimaneva a bocca aperta avanti a novità che oggi i ragazzini stentano a credere che siano state inventate tanto tardi. Egli ricorda che alle prime fiere furono novità il grammofono e la bilancia a quadrante, la linotype, la stilografica e il telefono automatico; poi furono novità la radio, le telescriventi, il tornio multiplo e automatico, il rasoio elettrico, le materie plastiche, la ghiacciaia domestica, il polmone d’acciaio, le apparecchiature radioscopiche per usi medici e industriali, la mungitrice meccanica, l’illuminazione à fluorescenza, le fotografiche tipo Leica, il D.D.T. e gli antibiotici; alcuni anni fa poi strabiliò avanti all’elicottero, ai siliconi, alle radio tascabili, ai magnetofoni, ai motori a reazione, alla televisione, alle maschere per la pesca subacquea. Oggi che cosa ci vorrebbe per farlo restare a bocca aperta? La pila atomica? Il betatrone? La bomba al cobalto? Un razzo interplanetario? La calcolatrice elettronica? La dattilografica che scrive sotto dettatura? La macchina che, seduta stante, traducesse in cinese o in greco quanto uno dicesse in italiano o in inglese?... Probabilmente tutte queste ed altre diavolerie presto le troverebbe “naturali” come il grammofono e la macchina da cucire, la macchina a vapore o il nylon, la cucina a gas o la lampada a incandescenza, che fecero delirare in ingenue vanterie i suoi nonni, e forse lui stesso, appena l’altro ieri... Giacché, ormai, cosi va la vita! L’avvocato un po’ duro d’orecchio porta nel taschino un amplificatore piccolo come una scatola di cerini e non trova niente da meravigliarsi per il prodigio di precisione che la scienza e la tecnica moderna hanno messo a sua disposizione, proprio come l’autista che, manovrando la Cadillac e la Packard padronale, non pensa neanche lontanamente che cosa tecnici e scienziati hanno dovuto studiare, architettare e superare per mettergli a disposizione un cambio meccanico semiautomatico o elettro meccanico automatico; anzi, come il ragazzino up to date, che, non più contento dei giocattoli elettrici comandati per trasmissione diretta su filo, è già passato a quelli elettronici, non pensando affatto di aver scomodato per i suoi minuti divertimenti barbe di scienziati e di tecnici, specializzati nientedimeno che in cibernetica... Segno evidente di quanto anche in Italia sia avviato quel processo vittorioso mediante il quale l’uomo, che già subiva la natura, viene ormai a dominarla, e da servitore cieco e tremebondo delle sue forze indomite, s’affretta a diventarne sapiente e temerario sfruttatore; e di ciò una parte del merito va anche alfa Fiera di Milano e alle sue consimili consorelle internazionali.

Ma può capitare anche questo, che il visitatore passi avanti ad autentici miracoli di tecnica e non se ne accorga solo perché gli fa difetto un minimo di cognizioni scientifiche (che poi non è tanto minimo), necessarie per comprenderne insieme l’utilità e l’ardua complessità. Abbiamo nominato i siliconi e le materie plastiche; aggiungiamo, giusto per fare qualche esemplificazione, il microscopio elettronico (in in mostra quest’anno dall’U.R.S.S.), il primo ed unico orologio elettronico (proveniente dalla Francia) e, tanto per rimanere nel campo dell’elettronica, la novissima arrivata che sembra decisa a sconvolgere dalle fondamenta tutto il nostro mondo tecnico, i radar, i transistori, i vapodine ecc. e cento altre autentiche meraviglie che si celano al profano dietro la facciata di innocenti quadranti, di modeste cassette o di aggrovigliati pasticci di valvole, di condensatori e di reostati, non più misteriosi di quelli che osserviamo, diffidenti, nell’interno delle nostre radio quando le apriamo per vedere che cosa ci sia dentro.

* * *

Ma della lacunosa cultura del pubblico certo non si può fare una colpa alla Fiera; tanto più che, pur essendo sorta con intenti commerciali ed industriali, e non culturali e didattici, ha ormai nella sua prassi di abbondare in iniziative di alta cultura e di divulgazione popolare. Chi non ricorda l’intuitiva mostra retrospettiva di studi e di modelli sul volo verticale, e la suggestiva mostra del fossile allestita dalla Montecatini, chiare lezioni popolari di meccanica e di geologia, che impreziosirono la Fiera del 1950? Orbene, quest’anno essa ha esibito nella Sala Pini una mostra retrospettiva della protesi dentaria dagli etruschi ai nostri giorni, e un’altra sull’aviazione, allestita nello stand della Gran Bretagna; ha visto moltiplicarsi almeno fino a quattro le sale cinematografiche: alla Breda, all’Ansaldo, all’aeronautica italiana e nel cine sperimentale per la quarta mostra internazionale della cinematografia al servizio della pubblicità, nelle quali venivano proiettati in continuazione film documentari, la più parte su processi di fabbricazione, qualità ed uso dei prodotti esposti, vere e proprie lezioni di una scuola popolare sui generis, mentre lezioni veri nominis attendevano i partecipanti ai numerosi convegni, giornate e simposi che componevano il programma culturale della Fiera. Simposio sul tema: Le basse temperature in biologia e medicina, convegni dell’elettronica e della televisione, della società italiana per il progresso della zootecnica, dell’agricoltura, del centro italiano studi aziendali, della produttività, della regolamentazione giuridica del volo verticale, internazionale di cultura odontotecnica, della tecnica organizzativa applicata alla pubblica amministrazione, nazionale per le relazioni umane...; giornate della chimica, del panificatore, della ceramica, dell’istruzione tecnica e professionale, dell’idroclimatologia, dell’agente e rappresentante di commercio, dell’economia italo africana, dell’iniziativa privata, della sicurezza... ; e oltre a tutto ciò, si è aggiunta l’azione sempre pronunciata di raggruppamento per affinità merceologiche dei settori espositivi e le numerosissime apparecchiature funzionanti sotto gli occhi dei visitatori, che fanno della massima mostra italiana una scuola attiva per eccellenza, ricca di una didattica efficacissima.

Probabilmente molti dei quattro milioni di grandi alunni che l’hanno frequentata non si trovavano in condizioni di poter acquistare nessuno dei più costosi oggetti espositivi; ma tutta la nazione ne ha cavato fuori un incremento della sua maturità culturale, con una visione più ampia e più profonda delle realtà e delle possibilità che la circondano; il che segna un utile molto più prezioso, benché non immediatamente valutabile in cifre, di qualunque grosso affare combinato o non combinato dagli espositori. Sotto quest’aspetto la manifestazione milanese costituisce un corso di aggiornamento culturale impagabile, e fortunato si può reputare chi, senza noia, e anzi divertendocisi, può frequentarlo ogni due o tre anni, e così adeguarsi, anche se di solito ne vive lontano, alle più recenti manifestazioni della nostra civiltà dinamica e febbrile.

* * *

Le considerazioni che abbiamo fatto, ed altre ancora che si potrebbero aggiungere, dànno pienamente ragione a quanto l’on. Scelba, intervistato da un telecronista, esprimeva nel corso della sua visita: «Il presidente della Fiera ha detto che una visita ad essa rappresenta un bagno di ottimismo. Visitando la Fiera di Milano questa impressione è nettissima». Infatti, bastava avere due occhi in fronte e la mente libera da pregiudizi settari.

Qui, dove sorgono questi padiglioni, dove sprillano altissimi e freschi questi getti d’acqua e dove si allineano queste macchine, ricostruite esse stesse e pronte a costruire, passava dieci anni fa una guerra riducendo in macerie gran parte di quanto l’Italia aveva lentamente costruito, e, peggio, lasciando menti e cuori divisi dagli odi e armati l’un l’altro nella più fratricida delle guerre! Qui, a Milano, dove fu inferto l’ultimo colpo a una nazione vinta e perduta, oggi garriscono al vento le trentasette bandiere delle nazioni che vi si sono date convegno: genti che allora si rallegrarono o ci commiserarono ridotti all’estrema rovina, ci ammirano oggi fortunati figli di una terra sempre rinascente, e tornano a stimarci di nuovo meritevoli di fiducia. Anche senza le spettacolose apparecchiature tecniche di altre nazioni, anche se privi delle materie prime che ad altri abbondano, anche se pigiati su di un territorio tanto povero di risorse quanto ricco di bisogni e di braccia, la Fiera di Milano fa vedere che cosa possano genio e inventiva, destrezza ed operosità. Ottimismo predicano i cento modelli che siamo capaci di dare per una macchina e l’estro delle forme della nostra produzione; ottimismo le minute invenzioni e le applicazioni dei grandi ritrovati ai più minuti bisogni della vita; ottimismo la diminuzione rapidissima dei prezzi, i quali, di lusso che erano ancora tre o quattro anni fa, li troviamo ormai alla portata di semplici benestanti e poi di impiegati e di operai; ottimismo canta la stessa organizzazione di quest’assisa internazionale dell’industria e del commercio, affermatasi vittoriosamente nella capitale affaristica di una nazione che passa per giocherellona e dilettante.

E molto più fulgida sarebbe la nostra affermazione nell’economia mondiale se non circolasse profonda nelle nostre carni l’insidia del comunismo, che ci smangia le più vive energie e corrode i nostri più validi valori morali. Guardiamo la Germania: anch’essa vinta e devastata, come e forse più che l’Italia, ancor oggi smembrata e dissanguata dai postumi di una guerra che sembrava dovesse prostrarla per sempre, eccola presentarsi di nuovo, con le 1.199 ditte della Repubblica Federale Tedesca, come il più agguerrito complesso industriale europeo, e ormai matura per riprendere nell’economia mondiale il posto di prestigio che sempre vi ha detenuto. Tutti vedono che i suoi prodotti e le sue macchine sono ben fatte, accuratamente rifinite, puntualmente consegnate; tutti sanno che anche per i prezzi vincono la concorrenza, e tutti sanno che se ciò è possibile è perché il popolo tedesco ha detto di no al comunismo e alle sue insidie: ha fidato più sull’unione disciplinata che sulla lotta di classe e ha preferito stringere la cinghia, lavorando sodo e sottoponendosi liberamente al sacrificio collettivo, piuttosto che seguire la via facile delle assurde rivendicazioni e degli scioperi di protesta.

Naturalmente, questa lezione di ottimismo, che, se raccolta dai visitatori, in gran parte “lavoratori” potrebbe, come di fatto è successo, tradursi in propaganda anticomunista, è stata deliberatamente ignorata dai giornalisti rossi, i quali, facendo forza al buon senso e all’evidenza dei fatti, appena hanno potuto si sono dati al triste mestiere di piagnoni. Hanno lamentato, per esempio, che il governo italiano mandi in Grecia le locomotive giganti della Breda invece di sostituire con esse le vecchie e malconce caffettiere, che, come tutti noi vediamo coi nostri occhi, trascinano, ahimè, penosamente i treni della nostra penisola; poi che molti degli oggetti esposti: motorscooters e televisori, frigoriferi e fuoribordo, giocattoli semoventi e argenterie, camere laccate, pellicce ed altre belle cose, in Italia sono destinate solamente ai signori...; ed evidentemente, anche se non lo dicevano a chiare note, lo pensavano, in contrasto con quanto avviene nel paese del loro cuore, ove, come ognuno sa, non c’è mugik che non spasseggi nel suo kolchoz in motorscooter e, d’estate, nei laghi in fuoribordo, e non c’è cittadino, anche se non iscritto al partito, che non mandi sua moglie vestita di pellicce, e di sera non coroni i piaceri del tenue lavoro quotidiano con qualche ora di televisione, od osservando compiaciuto i suoi bambini giocare col trenino elettrico o la talpa elettronica ... Sapendo quei giornalisti coll’occhio e col cuore lieti di tanto ottimismo, ma solo per quel loro beato paese, ci viene fatto di chiedere loro perché mai non sia lecito ai colcosiani e agli stacanovisti di colassù di venirsene a Milano, e perché mai gli italiani non possano rendere loro visita; ma essi, senza ridere, ci spiegherebbero che questo avviene perché il paterno governo di quel paese non permette che lo spettacolo della nostra miseria turbi la felicità dei suoi protetti, né la vista del loro benessere renda a noi più insopportabile la nostra infelicità...: tant’è vero che gli stessi giornalisti dalla lacrima facile per le deprecate iatture nostrane attaccano l’evoè del tripudio nel descrivere ed esaltare quanto l’U.R.S.S. ha esposto nella Fiera di Milano.

* * *

Ma questo, della presenza dell’U.R.S.S. ed accoliti a Milano, merita un discorso a parte.

Strana realtà l’Unione Sovietica! Predica la pace e fa la guerra; moltiplica gli enti per scambi culturali mentre chiude le frontiere e manda in Siberia chi riesce, di tra il frastuono di decine di sue emittenti di disturbo, ad ascoltare qualche radio estera; spedisce in giro migliaia di militanti perché parlino e scrivano dell’U.R.S.S., e intanto si circonda di mistero; sicché, mentre tutto quel che succede negli altri paesi del mondo è oggetto di cronaca, quel che succede in U.R.S.S. debba essere solo frutto di congetture. Stranezza e mistero l’hanno preceduta, accompagnata e seguita anche a Milano. Dopo anni di sdegnosa assenza, provò ad affacciarvisi nel 1951 con la baldanza del feudatario che vuol far capire chi egli sia alla prona assemblea dei suoi vassalli, valvassini e valvassori: ma ci rimise le penne. La stampa “reazionaria” se la spassò allegramente a proposito di certe macchine presentate per distrazione come russe ma fatte in Germania; i suddetti “vassalli” milanesi poi si fecero verdi vedendo esaltati alcuni dati statistici di un kolchoz modello dell’Ucraina, mentre sapevano che in un modesto podere alle porte di Milano si otteneva tre volte tanto; infine, tra i ragazzini nostrani restò leggendaria una bicicletta, ostentata dall’U.R.S.S. come una novità, la quale anche per Milano era proprio una novità perché si vociferava che pesasse solamente trenta chili.

Quelle «magre» fenomenali, contrastanti con l’azione di propaganda sesquipedale che erano costate, dovettero infastidirla. Risultato: altri due anni d’irritato silenzio o, forse, di rincorsa; e nel 1954 eccola presentarsi in forza, e pontificare, lei e i suoi accoliti, faro e salvezza dell’umanità raminga: per verità con buoni risultati propagandistici perché i tre settori da lei montati sono tra i più frequentati della Fiera.

Il genere di prodotti esposti da essa non differisce gran che da quelli delle altre nazioni: cereali, alimentari, tappeti, apparecchi idrometeorologici, minerali, laminati, macchine agricole, utensili e tessili, calcolatrici, strumenti ottici; e se non mancano tra essi pezzi di un certo interesse, come per esempio le stazioni mobili sismica e di carotaggio, il modello di sistema di blocco automatico ferroviario, la carbonifera Gorniak, una semiautomatica per il taglio rapido delle ruote coniche, rettificatrici, alesatrici, una piantatrice di patate a nidi..., lo stesso si poteva dire per altri paesi. Anche la dislocazione degli oggetti in tre settori distinti: il primo riservato a tutto quello che non è macchinario, ed allogato nel Palazzo delle Nazioni; il secondo, per tutti i macchinari industriali, situato nel palazzo della meccanica; e il terzo, nella zona de Finetti, per le macchine agricole, è comune agli altri maggiori espositori, che, oltre che alla mostra ufficiale, abbiano esposto nei distinti settori merceologici. Ma una differenza essenziale è nella maniera tendenziosa che U.R.S.S. e satelliti hanno di presentare gli oggetti esposti. La scienza e la tecnica non hanno o non dovrebbero avere frontiere né ideologie: così è per tutti ma non per i marxisti; sicché la direzione della Fiera non prova eccessive difficoltà a contenere tutti gli altri espositori nei limiti di musicanti di un’orchestra bene equilibrata; ma con quel regime no; quel regime, se si presenta, lo fa a trombonate, perché ha nel cervello la mania dell’autosuperesaltazione comune a tutti i regimi dittatoriali.

Nel 1937, nella Fiera internazionale di Parigi, l’U.R.S.S. opponeva il suo padiglione pretensiosissimo a quello pretenzioso dell’Italia fascista; oggi, si oppone spavaldamente a tutto il mondo non comunista. Gli altri si mantengono sul piano delle concretezze produttive, mercantili e scambistiche; per i sovietici la Fiera non è niente altro che una grande operazione di propaganda, un supercomizio internazionale. Il suo intento è far strabiliare: prima di tutto con la grandezza, anzi con la mostruosità degli oggetti esposti, da essa circondati da una certa aura mistica che già trovammo in certi “covi” e in certi “sacrari” di ventennale memoria. A Milano il camion russo da venticinque tonnellate era ambientato in un vuoto sacro, come un Budda in una pagoda; la piantatrice di patate e la sonda autotrasportata venivano presentate come agli aztechi tremebondi il dio Huitzilopotli.

Poi c’è la novità. Veramente nulla di quanto i sovietici hanno esposto si può dire propriamente inedito, ma loro hanno l’arte di dar per nuovo il vecchio e per singolare il comune, sapientemente sfruttando il mistero di cui hanno saputo circondare ogni loro attività. Di conseguenza, se qualche visitatore colto e non suggestionabile, vedendo linotype e pianoforti, motocompressori e saldatrici elettriche, microscopi e automobili, radio, trattori, scraper, calcolatrici e frigoriferi conclude che, dunque, com’era prevedibile, anche in Russia, come in tutto il resto del mondo, funzionano quelle cose, i semplici e zeloti vengono indotti a credere che solo in Russia quelle cose si combinano, e non, naturalmente, per merito di una cultura generica e su iniziativa di individui intelligenti e industri, come avviene in tutti i paesi del mondo, ma per virtù di un’ideologia onnipotente, senza della quale non sarebbero possibili le opere del regime: stoffe, libri, porcellane, macchine fotografiche e scatole di carne in conserva.

Ultimo mezzo per far strabiliare è la quantità. Essi sanno benissimo che i “signori” e i competenti guarderanno piuttosto alla qualità, e noteranno chi una certa trascuratezza per l’estetica, chi grossolane le stoffe, chi non rifiniti e rozzi alcuni apparecchi e addirittura scadenti i libri; ma essi mirano al grosso pubblico, il quale non va tanto per il sottile e misura il valore delle cose dal loro peso. In ogni modo, là dove non agissero il kolossal, l’inedito e la quantità, soccorrono le fotografie e le didascalie, orchestrate con innegabile senso psicologico e con una buona dose di villano disprezzo per l’intelligenza del pubblico cui sono destinate.

Un ingrandimento fotografico testimonia «Uno spettacolo del coro dilettantistico del kolchoz Switlo Jovtnia nella regione di Dnepropetrovsk»; un altro ci informa come qualmente «Artisti di un teatro colchosiano danno uno spettacolo durante l’ora di pranzo dei colchosiani che lavorano nei campi»; altre fotografie mostrano i volti radiosi di decorati stacanovisti dei paesi satelliti che superano di due o tre volte la norma di lavoro, non supponendo neanche lontanamente il bestiale sarcasmo che quella parata di violentati rappresenta e per gli operai-schiavi di oltre cortina e per gli operai-scioperatori che, finché possono, se la spassano tra di noi.

Pari stima per l’intelligenza del pubblico dimostrano dati e diagrammi. Uno dice che nell’U.R.S.S. «l’intero reddito nazionale è patrimonio dei lavoratori» lasciando inferire che, dunque, in Russia, «l’intero reddito dei lavoratori è patrimonio dello Stato», cosa che non c’era bisogno di leggerla lì per saperla. Un altro precisa che il suddetto reddito dei lavoratori cresce ogni anno, tanto che da quota 100 dell’anno 1940 è arrivato a quota 262 nel 1954, ma dimentica d’informarci quale sia oggi il reddito pro capite e l’indice del costo della vita, senza i quali dati non è possibile giudicare se la fatidica quota raggiunta non sia ancora una quota di fame, né che cosa importi che «dal 1947 al 1954 i prezzi sono scesi ben sette volte». Si vanta che in U.R.S.S., contrariamente che in Italia, non ci sono disoccupati, ma non si dice che la densità media della popolazione vi è di 30 abitanti per km², contro i 140 per km² dell’Italia; altri due affermano che «i pianoforti servono al dopolavoro» e che «nel club del complesso tessile di Trekhgornaia insieme coi giovani si possono vedere anche gli operai della vecchia generazione»: portenti, come ognun vede, del tutto ignorati nel mondo “capitalista”.

Nell’opuscolo distribuito senza risparmio: L’U.R.S.S. alla Fiera internazionale di Milano 1954, dove non mancano punzecchiature per i paesi capitalistici, con delicato pensiero si fa il processo all’ospitante affermando che «da parte dell’Unione Sovietica, il desiderio di sviluppare i rapporti commerciali con l’Italia si è manifestato con un accordo... che purtroppo non è stato realizzato, e non per colpa sovietica»; si offrono quindi all’Italia «carbone, grano e anche ordinativi per la sua industria», dimenticando di dire che l’Italia non è tanto stupida da preferire l’U.R.S.S. alle altre nazioni che carbone, grano e ordinativi le offrono a condizioni molto più vantaggiose.

Ma le dimenticanze non si fermano qui. Il tecnico sovietico che accompagna i visitatori fa osservare come il conducente di un trattore è riparato da un tettino ed assiso su di un comodo sedile di cuoio con braccioli e spalliera bene studiati, ma non dice quanti milioni in Soviezia siano i forzati al lavoro, ai quali manca qualche cosa più di un lettino e di un sedile a braccioli; s’è taciuto quanti lavoratori usino in Russia la lussuosa Zim, sei cilindri, 135 km orari, compiaciutamente esposta, unica automobile, alla Fiera; quanti ascoltino la grossa supereterodina Bielorussia 53, sei gamme d’onda, sincronizzazione fissa a sei tasti, occhio magico e due altoparlanti; come si spiega che chi ci sta cerca di fuggire e chi ne è fuori fa di tutto per non tornare in un paese dove tutti sono uguali nel vestire pellicce di visone e di ermellino, nel bere lo champagne della Georgia e nel pulirsi i piedi sui tappeti della Centrotex cecosìovacca, o della Sojuzpuschnina sovietica; com’è che, con quelle portentose macchine per patate, recentemente il compagno Chruscev s’è lamentato proprio sul settore patate e macchine relative...

Il visitatore critichino si convinca che nella mappa del mondo civile, come nei secoli della barbarie, al di là della cortina di ferro, finché non cambia qualche cosa, bisogna scrivere hic sunt leones e che quelli che vengono di là bisogna guardarli come esemplari di un mondo in cui le cose procedono con una logica che non ha niente che fare con la nostra. Per esempio, negli altri stands gli espositori sono tutti ditte o persone particolari: in quelli sovietici è lo Stato; negli altri, operai e guide possono liberamente parlare entro e fuori della Fiera con chi loro piace; quelli sovietici no: prelevati, sorvegliati, controllati; richiesti di notizie, ricorrono all’interprete, il quale controlla e filtra; interpellati in russo, in polacco o in rumeno, rispondono di non sapere, di non ricordare; invitati a cena fuori della Fiera, dicono di non potere...; esaltano i risultati dei loro piani d’industrializzazione: ma, portati da ingenui visitatori sulle sabbie mobili della libertà e della religione, pretendono bisogni urgenti o appuntamenti impreteribili... Insomma si ha l’impressione di due mondi contigui ma non assimilabili; di due esseri tra i quali può intercedere l’assalto e la difesa, ma non il dialogo. Da una parte c’è la fiducia nel razionale, nei valori della persona, della vita come realtà morale e religiosa, della convivenza come amore, del lavoro come pena e come mezzo per raggiungere una realtà che lo trascende; dall’altro c’è il culto della forza e il disprezzo di ogni libertà, l’irrisione dell’individuo stritolato dallo Stato, la convivenza dello spionaggio di un delatore sull’altro, il sospetto e il falso come metodo, l’esaltazione del lavoro e della macchina, fatti culto e scopo della vita... Il contrasto è tanto forte e il richiamo di più spirabil aere così potente che nel lasciare i tre settori sovietici ci sorprendiamo a compassionare i poveretti destinati a tornare di là e ci affrettiamo a respirare a pieni polmoni l’aria libera che c’investe una volta di fuori. Uscendo, apprezziamo meglio i volti dei nostri fratelli che ci guardano senza sospetto e ci rispondono senza difendere un’idea; ascoltiamo e leggiamo con piacere nuovo e più sottile una musica sonata da un organetto, vivaddio, non mosso dallo Stato, o un giornale non imposto dal partito; ci sentiamo allegri come scolaretti nel poter salire su un tram, sicuri che alle calcagna non ci segua una guida autorizzata, e nello scenderne quando e come vogliamo, o nell’andare a zonzo nei dintorni della città, alle prime frescure della sera, solo vigilati dalla mite luce delle stelle, o, sull’orizzonte dei tetti, dal diafano apparire della Madonnina del Duomo illuminata come un faro. Francamente preferiamo quella a qualunque stella rossa e, tutto sommato, compiangendoli per quanto soffriranno nel tornare, dopo la breve vacanza milanese, oltre i fili spinati che li attendono, ringraziamo i sovietici che con la loro presenza, per contrasto, ci hanno maggiormente dimostrato l’ottimismo che da tutto è cantato nella Fiera di Milano.

1 Catalogo ufficiale Fiera di Milano 1954. Vol. I: Elenco dei partecipanti per ordine alfabetico, pp. LII-972; Vol.II: Elenco dei partecipanti per ordine dei prodotti pp. CXXXII-1.102.
Fiera di Milano, bollettino quotidiano d’informazioni dell’Ente Fiera. Da questo bollettino estraiamo i seguenti dati di sviluppo della Fiera con la ripresa dopo la guerra:

Anno Totale
espositori
Espositori
stranieri
Visitatori Superficie
totale mq.
Stands
supericie
netta mq
1946 2.519 309 1.061.800 330.840 51.000
1947 5.018 1.150 2.490.000 81.806
1948 5.446 1.452 3.390.000 125.000
1949 6.554 1.858 3.200.000 334.000 143.000
1950 8.428 3.096 3.900.000 152.920
1951 9.173 3.045 4.200.000 155.000
1952 10.393 3.570 4.030.000 390.000 167.253
1953 11.486 3.543 4.290.000 187.258
1954 12.366 3.551 6.000.000 410.000 195.344

2 E di essi 37 anche con mostre ufficiali. Eccone l’elenco: Argentina (che figura a Milano per la prima volta dopo la guerra), Austria, Belgio, Brasile, Bulgaria, Canadà, Cecosìovacchia, Danimarca, Francia (con l’Algeria, il Marocco e la Tunisia), Finlandia, Giordania, Guatemala, Gran Bretagna, Grecia, Haiti, Honduras, Iran, Messico, Monaco Principato, Norvegia, Olanda, Pakistan, Polonia, Repubblica Dominicana, Repubblica Federale Tedesca, San Marino, Spagna, Svezia, Sud Africa, Svizzera, Turchia, Ungheria, U R.S.S. e Somalia.

In argomento

Cronaca

n. 2547, vol. III (1956), pp. 279-288
n. 2526, vol. III (1955), pp. 579-593
n. 2517, vol. II (1955), pp. 284-298
n. 2500, vol. III (1954), pp. 359-369
n. 2456, vol. IV (1952), pp. 171-182
n. 2399, vol. II (1950), pp. 548-559