Articolo estratto dal volume I del 1952 pubblicato su Google Libri.
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«Ma le moderne difese hanno tolto ormai quasi ogni pericolo alle furie dell’Eridano. Dormono sotto l’argine, tranquilli, gli abitati e su di essi corre sovente la grande strada ove cigolano i carri e le automobili sfrecciano sicure»1.
Deluso sbalordimento deve aver colpito chi queste cose scriveva nello scorso 1951, quando, la sera del 14 novembre, non essendo forse ancora del tutto asciutte le pagine che le riportavano, il Po, poeticamente in esse detto Eridano, prima tracimando e poi rompendo a Occhiobello e a Paviole, segnava proprio al 1951 la più rovinosa delle sue alluvioni, tanto rovinosa da togliere gran parte del loro rilievo alle sei date che dagli scrittori di cose padane erano fin allora ricordate per i suoi massimi misfatti2. Ma non meno deluso stupore deve aver colpito gran parte degli italiani, quando i giornali e la radio, prima li allarmarono con l’annuncio d’un imminente incredibile pericolo, e poi descrissero l’immensa e più incredibile sciagura.
Se pochi, certamente, tra loro ne trovarono la spiegazione nella «criminosa incuria del governo», come dissero e scrissero gli zeloti di quella Russia, dove, a quanto pare, la democrazia comunista avrebbe taumaturgicamente abolito, insieme con tante altre miserie che affliggono i paesi capitalisti, anche le alluvioni, molti senza dubbio si chiesero: — Perché? — e nel dubbio si rifiutarono di ammettere l’umiliante realtà che oggi la scienza e la tecnica, con tutti i loro progressi e i loro mezzi, non siano ancora capaci d’impedire siffatti disastri. Dubbio, questo, causato non tanto dal troppo presumere delle possibilità della nostra civiltà tecnica, quanto da una troppo vasta ignoranza di dati. Passarne, dunque, alcuni in rapida rassegna, farà toccare con mano come nell’ardua impresa in cui l’uomo s’ingaggia per affermare la vita, una sconfitta non deve umiliarlo ed abbatterlo, ma solo dargli il senso della sua misura di creatura.
L’uomo contro la natura
«Vecchio e pletorico» sarebbero i dati segnaletici del Po se si usasse dare ai fiumi, come ai viventi, la scheda personale di salute. Basta, per persuadersene, uno sguardo al tracciato del suo percorso, sia altimetrico sia di superficie.
Vecchio: perché da oltre i 2.000 metri, quota delle sue sorgenti sul Monviso, perde ben 1.700 metri di dislivello in appena 35 km., vale a dire in circa un diciannovesimo del suo intero percorso, impiegando poi tutti i restanti diciotto diciannovesimi a scendere 300 metri e giungere al livello del mare; sicché il suo percorso, rapido e deciso nel suo primo tratto montano, diventa tardo e incerto nel lunghissimo tratto vallivo, tutto rotto in meandri, anse, anconi, «botti», che portano la lunghezza effettiva dell’alveo a più di 650 km. quando la foce in linea d’aria ne dista dalle sorgenti non più di 420. Pletorico, con i suoi più di 1.700 m3 di portata media al secondo, quantità equivalente alla somma delle portate medie di otto massimi fiumi italiani3: valore altissimo, causato dalle precipitazioni atmosferiche, che nella conca padana segnano uno dei più alti indici medi d’Italia, e dal dovere il Po emungere un bacino di quasi 75.000 km2, sicché per ogni chilometro lineare del suo corso gli incombe il drenaggio di ben 115 km2, con un rapporto tra lunghezza di percorso e superficie d’impluvio massimo fra tutti i fiumi italiani, e tra i più alti anche tra i fiumi d’Europa.
Un percorso lungo e tortuoso, e per giunta con minime pendenze, non è quel che ci vuole per assicurare un rapido deflusso di una grande massa d’acqua; men che meno per smaltire le piene normali del Po, le quali più che quintuplicano la sua portata media, raggiungendo i quasi 9.000 m3. al secondo. Allora il Po tende ad uscire dal troppo angusto suo letto di magra, per aprirsi una più rapida via al mare; sennonché, millenni sono trascorsi da che esso, non più sfrenato come all’era terziaria, deve fare i conti con l’uomo che si è annidato sulle sue sponde, il quale ne ostacola in ogni modo il libero corso a tutela delle campagne feracissime e delle città ch’egli ha creato nella vallata.
Eccolo, allora, l’uomo all’opera per innalzare argini, non solo lungo il Po, ma anche lungo la parte terminale di quasi tutti i suoi confluenti. Questi, però, così imbrigliati, non possono più deporre le loro torbide nelle depressioni delle zone di confluenza, e gettano direttamente nel collettore una massa enorme di materiale solido, il quale, in parte si deposita nel fondo, costantemente innalzandone il livello, e in parte raggiunge il mare, dove dall’opera delle onde viene deposto sulle bocche del fiume, per estensioni di circa 70-80 ettari l’anno4. Quest’interramento progressivo del delta del Po tende a rendere sempre più difficile il deflusso delle sue acque, già ritardato dalla continua riduzione della scarsissima pendenza dell’alveo5, e perciò sempre più alti diventano i livelli delle sue piene. Ma l’uomo non si arrende, e risponde all’opera della natura dragando l’alveo, tracciando canali e drizzagni, innalzando sempre più i suoi argini6, difendendoli contro l’azione erosiva della corrente con fitte pioppete, con imponenti massicciate...
Non è facile dare una visione completa di questa titanica difesa contro l’acqua attuata dall’opera industriosa, tenace, secolare, disperata dell’uomo; essa non è meno degna di ammirata lode di quella leggendaria compiuta dagli olandesi per strappare e difendere dal mare i loro polder. Da Pavia al mare, lungo un asse di più di 400 km., collettore ed affluenti costituiscono ormai tutto un sistema fluviale pensile, cioè sorretto artificiosamente ad un livello molto superiore a quello della valle su cui s’appoggia, trovandosi questa per centinaia di migliaia di ettari da uno a cinque metri sotto il livello di magra del fiume e a dieci e più metri sotto il suo livello di piena, sicché ai lati del fiume e dei confluenti i terreni coltivati vengono ad essere come altrettante vasche di cui gli argini costituiscono i bordi.
Facile è comprendere quanta vigilanza occorra per mantenere efficiente siffatto sistema, che di sua natura non solo si trova sottoposto all’usura del tempo, come ogni opera dell’uomo, ma cui il tempo necessariamente tende a peggiorare sempre più le già precarie condizioni di stabilità. Può bene l’uomo prevedere tutte le incognite, calcolarne tutti gli effetti, predisporre sempre più accorte e poderose difese può anche, in momenti di particolare ottimismo, esprimere la sua soddisfazione per il lavoro compiuto7 e, non senza un accento di orgoglio, dirsi al sicuro da sorprese, ma la storia è là per dirgli che è sempre possibile l’imprevisto nell’opera della natura e che da un momento all’altro si può verificare, senza colpa di nessuno anche se col concorso di molti, un fortuito assommarsi di circostanze, che in un attimo butti all’aria la secolare fatica dell’uomo: così un’onda improvvisa e più alta delle altre disfa sulla spiaggia del mare, sotto gli occhi stupiti dei suoi piccoli ingegneri, il bel castello di rena e di zeppi costruito da bambini. Con questo in più, che come in un organismo invecchiato, se la pressione sanguigna riesce a rompere la diga che le arterie cercano di opporle col proprio indurirsi, tanto più grave ed irreparabile sarà da temere il danno quanto più esasperato sarà l’antagonismo tra l’impeto dell’onda e lo sclerosamento delle pareti.
Questo fortuito, imprevisto e imprevedibile concorrere di circostanze dannose s’è verificato appunto nel novembre 1951: temperatura autunnale, se non addirittura estiva, che scioglie le nevi invernali già cadute sul crinale alpino, sì da mettere in piena di disgelo i fiumi dei monti e in fase d’intempestiva attività le risorgive e i fontanazzi a valle; diluviali, insistenti, continue piogge sull’arco appenninico e su tutto il bacino d’impluvio, che scaricano in due settimane quanto la media annuale segna di solito in sei mesi; vastissime zone montane, che le necessità irragionevoli di guerra hanno disboscato e che lasciano correre l’onda pluviale senza ritegni di sorta, anzi aumentandone in proprio la massa d’urto con detriti e macigni non più trattenuti dalla scomparsa vegetazione8: chi può impedire la rovina? – Non certo il piccolo uomo coi suoi badili e i suoi sacchetti di terra!
Dopo le prime avvisaglie dei laghi alpini che si gonfiano e degli affluenti che straripano, allagando depressioni dell’alto e del medio Po, non è più un fiume quel che preme contro gli argini della bassa padana, ma un’unica onda mostruosa di 30 mila m3 al secondo, che invade lanche, golene e mortizze e, non solo esonda, ma sfascia, trasporta e discioglie centinaia di metri di argini, ritentando con successo, dopo otto secoli, per Occhiobello e Paviole, quel che nel 1152 era già riuscito a compiere per la rotta di Ficarolo: aprirsi un varco al mare; e quivi giunta, respinta dalla difesa delle dune e dall’onda di marea più alta di essa, risale per rigurgito tutto il territorio tra l’Adige e l’Adigetto, allagandolo da Adria fino a Rovigo.
Non è stato difficile a statistici di mettere insieme cifre vistosissime per dare un’idea del disastro. Si è parlato di trentadue comuni sgomberati, di 150.000 polesani allagati, di 120.000 profughi9, di 2,5-3 miliardi di m3 d’acqua irrompenti su d’una distesa di oltre 113.000 ettari sommersi10, di circa 40 miliardi di soli danni agrari11.
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Ma queste grosse cifre, tanto più restano fredde e senza volto quanto più sono fuori delle nostre misure usuali, e non riescono a dare la realtà accorata che si soffre visitando di persona i luoghi del disastro. Specialmente per chi vi penetra da Polesella, da Pontelagoscuro o da Revere, e che ha ancora negli occhi le campagne verdi per il grano novello, e il mirabile incrocio di netti fossi e di ordinati filari di viti, e i ricchi casolari e le corti popolate che affiancano le strade e i canali ben tenuti del ferrarese e della bassa reggiana, lo spettacolo del Polesine alluvionato stringe il cuore: spariti per tratti di centinaia di metri gli argini; smossi e fessurati i tronconi che non hanno ceduto; eroso, avvallato, divelto e rotto da crateri il fondo stradale; smosso lo stesso rilevato ferroviario; fradici spesso fin sopra i primi piani e fin sotto i tetti i muri non diroccati; massi disseminati nei campi; colmati i fossi, gli scoli, le cantine e coperti per chilometri e chilometri gli arati e i maggesi da una spessa coltre di sabbia, con depositi fino a due metri sul piano preesistente: impantanate le campagne dove l’onda è arrivata più stanca, da una fanghiglia gialla, tenace: scomparso ogni segno di vita e ogni deposito di raccolti dalle aie, dai granai, dalle stalle; e dappertutto, nell’inverno avanzato, un silenzio cupo, pesante, reso anche più cupo e pesante dalla nebbia bassa esalata da questa triste distesa di palude, che soffoca strade, alberi e case con la stessa accorata angoscia che prende alla gola lo spettatore. Il quale, poi, se volge lo sguardo dalle cose agli uomini, o allineati, tragiche sentinelle, lungo i fronti dell’immenso pantano, o allogati, nostalgici esuli, nei rifugi, allora rivive tutta la realtà della sciagura nelle parole, e più, negli sguardi smarriti dei testimoni: le campane che sonavano a martello, il rombo come di una cannonata dell’argine che cedeva, il furioso avanzare del muro d’acqua mulinante, lo scroscio dei casolari cedenti sotto il suo urto, i pagliai galleggiare tutti interi e poi rovesciarsi disfacendosi, il febbrile accumulare di raccolti e di masserizie ai piani superiori delle case o su carrette e barche di fortuna, il disperato chiamarsi nella notte, la fuga scomposta di persone, di carriaggi e di animali impauriti nelle strade strapiene (— Come Caporetto! — commentava un fittavolo), e dietro quella fuga troppo lenta, ancora l’onda incalzante della piena; poi la lunga speranza e la lenta agonia di Fiesso, di Pincara, di Frassinelle, di Rovigo, di Cavarzere, di Adria; il disperato attendere di soccorsi per giorni e per notti sui tetti, sugli alberi e sugli argini emergenti dalla tempesta, il ribollire di carogne, di materassi, di botti, di mobili, e il terrore disperato dei cinquanta annegati del camion della morte...: — Vede questa fotografia? — mi diceva la suorina dell’asilo di Ferrara diventato rifugio; — erano due sorelle: una aveva diciotto anni, l’altra venti. Son restate nel camion della morte. Quella è la madre... — e m’indica una donna giacente su d’una branda: un singhiozzare rapido e secco la scuote tutta, le pupille sbarrate nelle occhiaie riarse, le labbra cianotiche dei malati di cuore. Intorno, inebetiti, le stanno tre relitti d’uomini: il marito e i due figliuoli superstiti...
Contro la sciagura: la carità
Sotto la prova del dolore si rivelano i difetti e le virtù latenti nell’uomo, come sotto i forti carichi si prova se sono imporrite o salde le travi. La sciagura del Polesine ha rivelato tante cose brutte e belle abbattendo di colpo convenzionalismi e camuffature, come avviene in montagna quando l’abbattimento di un albero sconvolge il terreno apparentemente indistinto e mette a nudo i segreti insieme meravigliosi e tenebrosi di un termitaio.
Di bello essa ha scoperto quanto di bontà ancora alberghi nel cuore dell’uomo. Scoperta immensamente gaudiosa, questa, perché tutto quello che in questi ultimi anni con orrore abbiamo udito e visto di lotte, di odi, di stragi e di viltà e per il molto ancora con cui le passioni umane, e specialmente la lotta politica, contribuiscono alle sozzure di che è piena la cronaca odierna, tutto tende, e in molti di noi ciò ha già ottenuto il suo triste effetto, a persuaderci che tutto e solo egoismo e male sia l’umanità odierna. Invece no: sul Polesine allagato la risposta della carità cristiana e della solidarietà umana è stata pronta, unanime, generosa. Essa ha fatto luminosamente vedere quanto di buono c’è ancora nel cuore del nostro popolo, anzi di tutti i nostri vecchi popoli, specialmente quando la religione cristiana ne alimenta la vita.
Sul luogo della sventura sono accorsi, non chiamati, i soldati inglesi e americani di Trieste, genieri e studenti cattolici francesi, operai tedeschi per la manovra delle idrovore inviate dal governo di Bonn. In fraterna collaborazione con gli stranieri lavorarono i nostri magnifici soldati, i carabinieri, le forze di polizia, i vigili del fuoco; questi soprattutto, accorsi da tutte le parti d’Italia in numero di 750, moltiplicarono il loro lavoro sì da sembrare migliaia, salvando nei primi giorni 22.000, e complessivamente 60.000 persone. Stranieri, giornalisti e alluvionati si domandavano: — Ma quando dormono, quando mangiano i pompieri del Po? — I quali poi, interrogati del loro nome dopo qualche operazione più arrischiata, rispondevano modestamente: — Dica i vigili del fuoco...12 —. Ma accorsero pure, per salvare persone e cose, per instradare, rifocillare, alloggiare e curare i danneggiati, oltre ai singoli, associazioni di tutte le denominazioni: Azione Cattolica, Croce Rossa, Congregazioni Mariane13, Asci, Acli, P.C.A. (preziosissima l’opera prestata dalle sue assistenti sociali), Cif, Rinascita Cristiana, Comitati Civici, Endsi, Croce Verde e Croce Bianca, Conferenze di S. Vincenzo, parrocchie, istituti scolastici...14
E, cosa meravigliosa in quest’Italia tanto divisa anche nel bene, le dette organizzazioni e i privati accorsi sul posto, non solo lavorarono bene in prestazioni, per così dire, indipendenti, ma anche quando si trattò, per una più efficiente opera di soccorso, di coordinare le iniziative in loco. Se allora qualche cosa fece difetto, ciò fu nella macchina organizzativa delle nostre opere di carità e di difesa civile, non negli uomini; ché questi si mostrarono ricchi del più spersonalizzato spirito di sacrificio e vogliosi di collaborare più che di comparire in proprio. Così sugli argini rotti del Po, del Canal Bianco e della Fossa di Polesella, come nelle stazioni di smistamento di Ferrara e di Padova, nei centri di raccolta dei sinistrati come nell’opera di raccolta di oggetti e di danaro, l’accordo di lavoro fu non solo soddisfacente ma quasi dappertutto perfetto, anche quando le massime organizzazioni di assistenza, a sé sufficienti, richiedevano dai collaboratori un’opera destinata a comparire solo come secondaria ed ausiliaria rispetto a quella principale delle organizzazioni stesse; ciò che si verificò specialmente nel caso dell’Ente Comunale di Assistenza (E.C.A.) e della Pontificia Commissione di Assistenza (P.C.A): la prima, in funzione di distributrice dei soccorsi statali attraverso le prefetture15, la seconda, anche come distributrice della carità del S. Padre e delle organizzazioni cattoliche nazionali ed internazionali16.
L’ormai lunga esperienza acquisita dai dirigenti e dagli addetti della P.C.A., prima nelle opere assistenziali di guerra e del dopoguerra, poi in quelle di assistenza stabili, nonché nei casi di emergenza di questi ultimi anni, e la sua organizzazione a base capillare, ha fatto sì che la carità del Papa trovasse in essa un organismo tempestivo, efficiente e proporzionato. Prima tra le prime sul posto del disastro, essa si organizzò in quattro centri di raccolta e smistamento dei soccorsi: a Parma, Padova, Ferrara e Bologna; in posti di assistenza avanzati in ogni località allagata o ai margini della zona sommersa; infine in centri di ospitalità istituiti in ogni diocesi dell’Italia settentrionale e centrale, nel triangolo compreso tra Torino, Trieste e Roma. Centri di segnalazione e d’informazione ne furono i vescovadi nelle città, le parrocchie nei centri minori. Le circostanze portarono la delegazione regionale di Padova a diventare il centro diretto propulsore di tutto il movimento nel basso Polesine, sicché essa, passata la prima fase di tentativi e di segnalazioni, assai presto divise i suoi servizi e i suoi compiti su sette distinte direttive17. E non bisogna credere che la sua efficienza di organizzazione pesasse in periferia, sì da rendere opera burocratica quel che voleva e doveva essere prima di tutto squisita carità cristiana; suo intento è stato di dare ai sinistrati il caldo di una famiglia, facilitando fra l’altro con tutti i mezzi la ricostruzione dei nuclei familiari dispersi e mantenendo i rapporti tra soccorsi e soccorrenti in un’atmosfera di umana tenerezza. D’immenso aiuto furono perciò le colonie estive marine e alpine, riaperte per alloggiarvi specialmente bambini18.
È troppo presto per poter riassumere in dati precisi la somma di lavoro fornito dalla P.C.A., tanto più ch’esso è ancora in atto, e si avvia verso la fase più difficile: quella della ricostruzione e del ristabilimento delle comunità familiari e paesane nei luoghi alluvionati. Ma poche cifre potranno dare l’idea di quel più che manca. I bambini raccolti in colonie della P.C.A. sotto il controllo della Delegazione regionale di Padova a tutto il dicembre 1951 erano 4.500; i centri di alluvionati: 421, con 97.594 assistiti adulti e 13.543 bambini.
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Ma come l’alluvione devastatrice era stata alimentata da eccezionali torrenti di pioggia, cosi l’alluvione della carità, valanga incontenibile nel suo punto di sfocio, è stata alimentata da uno slancio ammirevole di carità, soprattutto in quanti poco avevano o molto già avevano dato per soccorso alle sciagure che qualche giorno prima di quella del Polesine avevano colpito l’Italia nella Campania, nella Calabria e in Sicilia. Come si fa a non intenerirsi a sentire raccontare qualcuno dei mille episodi di bontà che fiorirono in Italia in quei giorni? Mentre nell’etere s’incrociavano i richiami della Catena della felicità; attuata dalla RAI, a Roma per più giorni scendeva per tutte le strade a gran tonfi una grandinata di nuovo genere: migliaia e migliaia di pacchi d’indumenti e di valori che i camion della Croce Rossa raccoglievano; cumuli poi di simili pacchi s’accatastarono negli incroci stradali presso gli agenti del traffico insieme con bei mazzi di carta moneta. Una povera vecchia del Veneto regalava metà della sua già stenta pensione; un vecchio si recava all’ufficio della RAI, vi lasciava quello che solo era in grado di dare, il cappotto e la giacca: — Quei poveretti hanno più freddo di me! — uscendo poi in strada in maniche di camicia; un operaio del Varesotto prende e piega un impermeabile da lui comprato da poco e lo dona dicendo semplicemente: — Io andrò con l’ombrello! — Un operaio d’Ivrea manda 25.000 lire a un parroco delle terre invase rinunciando al viaggio a Lourdes, per fare il quale da molto tempo stava raggranellando quella somma... Una comunità religiosa di giovani studenti, non contenta del lavoro intensissimo fornito per portare a termine una copiosissima raccolta di fondi e d’indumenti, non sapendo che cosa donare di suo ai sinistrati, dato che i religiosi nulla hanno di proprio, decidono di lasciare per nove giorni qualche cosa del loro cibo ordinario, seguiti in ciò da tutte le case religiose della provincia...
Questo particolare ci ricorda di aggiungere un ultimo tratto al quadro perché, anche se sommario, esso non resti troppo lacunoso: ci riferiamo all’opera di carità svolta dai sacerdoti, dai religiosi, dalle religiose: insomma dalla cosiddetta gente di chiesa. Dal coraggioso don Nando Rizzo, parroco di S. Maria Maddalena, che con pericolo della vita accorre in barca per trarre in salvo i suoi parrocchiani isolati su di un moncone d’argine a Occhiobello, ai non meno coraggiosi sacerdoti (il p. Celato, don Sandri, don Dardani...) che con tenace sforzo riuscirono a metter su e a mantenere efficienti centri di raccolta, a quanti si prodigarono nella distribuzione di soccorsi, alle religiose che profusero tesori di materna bontà nelle colonie riaperte, nelle scuole e negli asili, popolati una volta tanto non solo di bambini ma anche di gente di tutte le età e di tutti i colori, a quanti indurirono senza requie e senza riposo a capo delle organizzazioni, sempre comprensivi e ben animati, anche nell’inevitabile smarrimento di tanti tocchi dalla sventura ed abbattuti da essa, e nelle loro comprensibili richieste, insistenze e lamentele; a quelli e a quelle soprattutto che, danneggiati anch’essi, dimentichi della loro iattura, nel freddo e nell’umido plumbeo di quei giorni si preoccuparono solo di dispensare sulle frontiere del dolore l’irradiante carità di Cristo e del suo Vicario: la Chiesa è stata presente nel Polesine, cioè proprio in quelle zone dove più i caporioni rossi l’hanno fatta maledire e perseguitare, sì che l’operato dei suoi umili eroi resterà agli occhi dei suoi figli immemori come una fulgida testimonianza della vita di Cristo ch’è in lei. Nella famigerata «bassa», un sindaco, noto comunista, anche a nome della popolazione si disse ammirato del lavoro compiuto dai sacerdoti di S. Fedele, quando intanto nel paese si diceva pubblicamente: — Se non foste stati voi, preti e frati, noi saremmo rimasti abbandonati! — I poveretti di Villadose, dicevano: — Non abbiamo mai visto mani più buone delle vostre! — Altrove gli alluvionati confessavano meravigliati e confusi: — Ecco qua i preti ad aiutarci. E noi li dicevamo affamatori! Sono essi a portarci soccorso, pane e indumenti... — La giunta comunista di Cavarzere votava un plauso all’opera svolta dalla P.C.A.: al senato, l’on. Umberto Merlin affermava: «I sacerdoti restarono fino all’ultimo momento accanto alle loro popolazioni e meritano un particolare elogio».
Ombre e vergogne
A forte contrasto con la solare, calda, benefica luce della carità cristiana e dell’umana solidarietà, l’alluvione ha posto in risalto purtroppo anche molte ombre, alcune delle quali tenui e sfumate, altre invece cupe, nerissime. Fanno parte delle prime episodi forse non tutti in tutto veri, ripetutamente affermati sul posto. Si è parlato di sciacalli che dal danno comune hanno voluto ricavare profitto, o rubando quanto i profughi avevano lasciato incustodito o, peggio, col carpire la fiducia dei piccoli possidenti offrendosi ad acquistare per poche lire le terre sommerse, a loro detta, ormai inutilizzabili; si è vociferato di vili operai, prezzolati da ancor più vili padroni, che avrebbero tentato di aprire delittuosamente alla furia delle acque il margine destro del Po che difende il Ferrarese e salvare così il proprio argine in pericolo; profittatori senza coscienza che, nient’affatto danneggiati, si sarebbero dati come tali per usufruire dei soccorsi e del sussidio governativo; di veri alluvionati che si sarebbero egoisticamente organizzati per arraffare il più possibile da tutte le opere di soccorso (mi è stato riferito di un solo uomo che così è riuscito a «realizzare» trentasei cappotti!) a danno di altri meno intraprendenti; di rifugiati che con le loro esigenze da gran signori sono riusciti a vincerla sulla paziente generosità di chi li aveva ricoverati come fratelli in casa propria, sì da obbligare questi a ricorrere alle autorità perché li esonerassero da una carità diventata troppo eroica; e finalmente anche di gente che, passata di colpo da una vita da bestie ad uno stato di relativo, anche se precario benessere, non solo non s’è sentita in dovere di apprezzare, e men che meno di ringraziare, per tutto quello che con sacrificio si faceva per loro, ma piuttosto di esigere e di protestare per il di più che non si poteva fare... Ma certamente andrebbe errato chi volesse generalizzare questi fatti sporadici, dimenticando che una somma di male, insieme con molto bene, bisogna aspettarsela sempre in un mondo di uomini e non di angeli.
Nessun pessimismo invece riuscirà a rendere più cupe del troppo che già sono le due note peggiori rivelate dall’alluvione; la prima delle quali è la miseria e la sporcizia fisica e morale in cui vive molta popolazione del basso Polesine e specialmente quella delle «valli» o ad essa limitrofa. Quanti italiani sapevano che in Italia, a pochi chilometri da Bologna, da Ferrara, da Padova, da Venezia ci fosse una colonia di primitivi da civilizzare? — L’alluvione l’ha scoperta a molti e, per nostra vergogna, agli stranieri accorsi in aiuto. Alle foci del Po vivono decine di migliaia di creature umane, come forse non ne vivono in Africa. Chi tra loro è «signore», e sono rare eccezioni, vive in case di muratura; tutti gli altri vivono nei «casoni», costruiti in paglia e canne palustri, con pavimento di terra battuta; tra casone e casone, tra paese e paese non strade che non siano di polvere e di fango, non luce, non farmacie, non posti di pronto soccorso, non acqua: solo i «ricchi» se la possono comprare questa, quando passa l’autobotte che la trasporta, a dieci lire il secchio: gli altri per dissetarsi devono accontentarsi dell’acqua dei canali di scolo, e talvolta, dell’acqua salmastra di rigurgito.
Si pensi che cosa produce questa totale mancanza di tutti i presupposti di una vita civile: per la parte sanitaria un infierire della tubercolosi, del tifo e della maltese; per la parte culturale, un inebetimento della popolazione, che diviene rozza, ignorante, primitiva (in più centri di raccolta di Bologna s’è verificato il caso di molti adulti, che messi in condizione, forse per la prima volta in vita loro, di servirsi di docce e di normali gabinetti, non hanno saputo spiegarsi a che cosa servissero quegli strani impianti, ed hanno chiesto dove fosse... la porta dell’orto!); per la parte morale un avvilimento bestiale, più basso di qualunque idea se ne possa fare: la rozzezza d’animo sopra accennata, la promiscuità dei casoni ad unico ambiente comune, dove famiglie numerosissime, composte di otto, dieci e più persone, tutto fanno e tutto si permettono, promiscuità che diventa superaffollamento nelle rare case in muratura, causano le unioni più assurde, ibridi incroci dettati solo da istinti primitivi, col triste carico di discendenze molto spesso tarate psichicamente e somaticamente.
A ciò si aggiunge la piaga della disoccupazione. Essendo la popolazione per circa il 63% rurale e mancando la zona quasi totalmente d’industrie e di contadini possidenti, alta, e in alcuni comuni altissima è la percentuale dei braccianti, ai quali, nonostante qualche previdenza, come per esempio l’imponibile di mano d’opera, è impossibile assicurare qualche volta neanche un minimo di giornate lavorative. Basti un solo dato: il deficit di giornate lavorative nel territorio del delta del Po è di quasi cinque milioni di giornate l’anno!19
Questo stato di cose offre ampio argomento ad una delle più tristi meditazioni occasionate dal disastro del Polesine: che la grandiosa opera di bonifica antica e recente attuata alle foci del Po dall’industria privata con l’ingentissimo concorso dello Stato, il quale talvolta vi ha investito più di un milione e mezzo (in lire odierne) per ettaro, si è risolta in uno dei più inumani attentati ai diritti e ai valori sociali; si è tenuto presente in essa e si è ottimamente risolto unicamente un problema produttivistico, riuscendo a trasformare il fango degli acquitrini in terreni tanto fertili da segnare produzioni unitarie tra le maggiori d’Italia, ma insipientemente, delittuosamente, si sono ridotti a fango e sporcizia, uomini, creature di Dio, formando al delta del Po una massa tra le meno progredite e più primitive d’Italia!
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Ma per quanto sia scura quest’ombra, un’altra peggiore la vince su di essa. L’alluvione del Polesine ha rivelato una volta di più quanto sia mostruoso il vero volto del comunismo.
È noto come il Polesine, specialmente nella sua parte più bassa, sia per la maggior parte «rossa», ma non sono a tutti ugualmente noti i metodi con cui i capi rossi di colà mantengono i loro feudi. Non la persuasione della libera discussione, ma la suggestione violenta; neanche una parvenza della loro strombazzata libera democrazia, ma l’intimidazione e il terrore. Pochi caporioni, indettati da piùa alti capoccia, guidano come vogliono la massa dei manovrati. Valga come esempio il paese di P.....: tremila abitanti, tutti cattolici, che muoiono coi sacramenti. Nulla possono dire contro il vecchio parroco, vero padre di tutti che vive in povertà come loro. Eppure solo un’ottantina di uomini vengono alla messa domenicale; gli altri mille almeno, dal 1945-47 non ci vanno più per paura dei capicellula, e quando ci vanno, si nascondono nelle chiese delle frazioni vicine per non farsi vedere da loro... Nel paese, come per amplissime zone altrove, questa sembra una condizione normale di cose; solo chi viene da fuori si domanda se il Polesine sia in Italia, dove una Costituzione garantisce la libertà di culto e dove un governo onesto c’è per farla osservare, o in Russia, ove avere una religione è tradire lo Stato...
Parallela a quest’azione organizzata per fare il vuoto intorno al prete, azione che ha raggiunto effetti avanzatissimi, procede quella di presentare tutta la Chiesa, non solo nemica, ma anche aguzzina del popolo lavoratore. Mi è stato riferito di una vecchia che ha preferito restare sull’argine e morirvi piuttosto che venir salvata da una suora. A Firenze un gruppo di bambini, raccolti dalla P.C.A. ed affidati alle suore, lavati, spidocchiati e vestiti da queste, messi a tavola rifiutano di mangiare la minestra che viene loro ammannita. Incoraggiati e pregati, persistono nel rifiuto: finalmente confessano che temono di morire avvelenati, com’erano stati preavvisati dai «compagni»... Lo stesso è avvenuto in Calabria, segno che la cosa fa parte della loro tecnica; solo che laggiù il metodo comportava una variante, quella di unire al terrore per i preti e le monache avvelenatrici, il terrore della polizia e dei carabinieri giustizieri, sicché quando questi e quella si presentarono per togliere dalle unghie delle «compagne» i bambini da loro arraffati agli ignari genitori, quei bambini, terrorizzati, tentarono la fuga temendo di venir fucilati dai militi...
Verificatasi la sciagura, questa è diventata per i dirigenti comunisti una nuova occasione per esercitare la loro più sporca politica. Cominciarono, come s’è detto, a dare al governo e naturalmente alla Chiesa la colpa dell’accaduto; esagerarono poi gli inconvenienti che si verificarono nell’opera di soccorso, pochi in vero e comprensibili in tanto danno, come effetto d’intenzionale incuria e di voluto malanimo dei soccorritori; dove poterono, per esempio in qualche colonia della P.C.A., cercarono di creare malcontenti mediante loro emissari, del resto presto scoperti e mandati in punizione ai centri di raccolta organizzati dai comunisti; dopo i primi giorni di smarrimento tentarono di avocare a sé la distribuzione dei soccorsi e di far passare come opera del partito l’attività del governo o la fiorita carità cristiana; creati nei singoli comuni, con tempestiva e felicissima formula, i comitati dei cinque20, cercarono di boicottarne ed intralciarne l’opera; incaricato della distribuzione dei soccorsi, qualche «compagno» li deviò ad uso dei suoi e del partito; posto dal governo allo studio degli organi competenti un progetto di sistemazione della Valle Padana per prevenire il ripetersi di rotte, cercarono di creare confusione e discredito presentando controprogetti, altrettanto facili e sbalorditivi quanto assurdi ed affrettati; cominciati i lavori di sistemazione degli argini asportati, seminarono il malumore nella stampa e tra le stesse maestranze sul posto, criticando la lentezza di quei lavori, tanto che i dirigenti del cantiere di Occhiobello si trovarono in necessità di proibire l’accesso ai lavori anche ai giornalisti; venuti una buona volta anche dalla Russia i soccorsi21, unici tra tutti i soccorritori, i comunisti trovarono necessario farli accompagnare da una commissione di propagandisti, incaricati di far rompere in «scrosci di applausi e di evviva senza fine il pubblico in piedi» a Rovigo ed altrove per tutto il Polesine, parlando «della pace e dei trattori di Stalin contro i carri armati e gli strumenti di morte», unico contributo questo, a quanto pare, dei paesi capitalisti e del governo in combutta con loro; e trovarono necessario anche impiastricciare i muri delle case di tutto il Polesine, ancora grondante umidità e fango, con rutilanti striscioni inneggianti al grande popolo sovietico! Quei colori e quelle scritte, in innaturale e crudele contrasto con la rovina di tanto paese e col dolore chiuso di tanta povera gente, resteranno una delle cose più sudice notate da quanti videro quelle tristi cose di quei tristi giorni!
Ma una pagina mille volte più vergognosa segnarono i comunisti con la loro corsa all’arrembaggio per impossessarsi dei bambini alluvionati. Non certamente pietà, tenerezza, amore all’infanzia e solidarietà umana spingeva le fameliche «udine» ad assicurarsi, anche qui, come in Calabria, con la frode e coi colpi di mano, il più gran numero possibile di bambini, per consegnarli a compagne d’indubbia fede comunista; se anche qualche dubbio contrario gli fosse prima rimasto, chi ha visto quanto avvenne in quei giorni ha capito che la furia della rapina era comandata solo dalla più feroce ideologia politica, e dall’unico pensiero di togliere i bambini dalle mani della Chiesa. In questo particolare, forse come non mai prima, il comunismo nostrano ha scoperto il suo volto di feroce, irriducibile nemico di Dio e del suo sacerdote. Se il tempestivo intervento delle autorità ha sventato nella maggior parte dei casi la loro manovra, ciò non toglie che l’alluvione del Polesine ha svelato senza equivoci gli intenti più profondi della sorda lotta che travaglia da anni ormai la patria nostra: il possesso delle anime. Da una parte per formarne figliuoli di Dio, dall’altra per foggiarne i pionieri dell’empietà.
* * *
Oggi, mentre sulle strade che vanno dagli Euganei alle falle del Po continua ininterrotta l’affannosa corsa dei camion carichi di pietrame per otturarle, e mentre sugli argini slabbrati ferve l’opera dei cantieri, l’animo angosciato degli ingegneri e degli operai, e ancor più dei rivieraschi, si domanda se basteranno i settanta giorni preventivati per chiudere le rotte, e rifugge dall’immaginare il danno che deriverebbe alle opere stesse già iniziate e alle già tanto disgraziate campagne del Polesine se le piene primaverili del Po sopraggiungessero quando ancora gli argini non fossero saldati. Intanto il governo predispone provvidenze per una sistemazione definitiva di tutta la Valle Padana, intanto le opere assistenziali si organizzano per passare dalla fase di sgombero e di raccolta dei profughi a quella molto più difficile e impegnativa di ricostruzione della vita umana e civile nelle zone ridotte ad acquitrino.
Stanco della visione di questa smisurata sciagura, il visitatore supplica la Provvidenza di voler risparmiare ulteriori prove a chi ha tanto sofferto; sintetizzando poi quanto di bene e di male ha visto sulla livida palude si domanda fiducioso se non sia possibile organizzare tante forze di bontà latenti nei cuori degli italiani, per riedificare, insieme con quelli che difendono le ricchezze materiali di una parte sì ferace della nostra Penisola, gli argini della giustizia e della solidarietà umana contro una piena di miserie materiali e morali indegne dell’uomo, gli argini di una fede e di una vita sinceramente cristiana in Italia, rotti i quali dilagherebbe, e non più solo su di una provincia, un’alluvione ben più disastrosa di quella che in questo fosco inverno ha stretto nell’angoscia il cuore di tutti gli italiani.
1 I. ZAINA, Luoghi e città, Brescia 1951, pp. 59-60.
2 E sono il 589, il 1152 data della celebre rotta di Ficarolo, il 1438, il 1872, il 1882 e il 1917, quando altrettante volte si verificò la descrizione virgiliana: Proluit insano contorquens vertice silvas – fluviorum rex Eridanus camposque per omnes – cum stabulis armenta tulit ... (Georgiche, 1, 481).
3 Cioè: Ticino (410 m3), Adda e Adige (250), Tevere (230), Dora Baltea (215), Tanaro (130), Tagliamento e Arno (100).
4 Si calcola che all’idrometro di Pontelagoscuro, a un centinaio di chilometri dal mare, passino ogni anno una trentina di milioni di tonnellate di materiale.
5 Nel tratto Ostiglia-Pontelagoscuro, ove si sono sono avute le rotte, la pendenza va dal 0,09 al 0,075 per mille, cioè circa 8 centimetri per chilometro; nel tratto terminale, per 50 km. fino alla foce, del 0,01 permille, cioè di meno di un cm. per chilometro.
6 Per un sesto, quando proprio non se ne può fare a meno, questi margini sono in froldo, cioè a costante contatto con l’acqua del fiume, e per cinque sesti a difese distanziate, che lasciano più o meno ampie distese di terre goleniche a sfogo delle piene del fiume.
7 Forniscono un’idea del prodigioso e complicato sistema attuato dall’opera secolare dell’uomo questi dati, valevoli però non per tutto il sistema del Po, ma solo per il territorio alluvionato: il Polesine e il Cavarzerano. La rete scolante principale dei comprensori di bonifica comprende km. 1.181 di canali; le loro arginature interne ed esterne hanno un’estesa di km. 382; gli impianti idrovori sono 48 con una portata complessiva di 118 m3 al secondo (cfr Agricoltura delle Venezie, del dic. 1951, p. 633).
8 Cfr Gli insegnamenti dell’ultima alluvione nell’ltalia forestale e montana, nov. dic. 1951, p. 273 ss.
9 La relazione Merlin al Senato, del 19 dic. 1951, asserisce che «oltre duecentomila polesani (esattamente 217.640) oggi sono profughi in almeno trenta province italiane».
10 V. MONTANARI, art. cit., p. 631. Ma Agricoltura, genn. 1951, pp. 52-53 dà 118.000 ettari.
11 Per il bestiame si hanno questi dati non definitivi: annegati, bovini 4.500, equini 140, suini 7.800, ovini e caprini 700, conigli 18.000, pollame 300.000. Per i foraggi e i lettimi: asportati e distrutti q.li 1.000.000 di fieno, 400.000 di paglia, 200.000 di steli di granoturco, 800.000 di polpe fresche insilate di bietole da zucchero. Si sono sciolti 300.000 q.li di zucchero. (V. MONTANARI, art. cit., pp. 634-635).
12 Cfr Antincendio, dic. 1951, p. 490.
13 Chi conosce quanta parte le opere di carità hanno avuto nella storia delle Congregazioni Mariane (cfr E. VILLARET, Les Congrégations mariales, 1947, parte IV: Vie publique) stenterà a credere che quelle belle pagine possano essere state superate da ciò che le Congregazioni d’Italia hanno fatto in quest’occasione, distinguendosi tra esse quelle di Milano, Brescia e Padova (che fornirono la maggior parte dei soccorritori di cui si parla più avanti), Ferrara («una rivelazione» per il Commissario dell’E.C.A., generale Bonfante), Bologna, Venezia. (Cfr Stella Matutina, gennaio 1952, p. 1 ss.).
14 Da aggiungere l’UVI; tra le aziende industriali: la Face, la Coca Cola e l’Alfa Romeo di Milano... A Pincara trovammo anche un piccolo distaccamento dell’Esercito della Salvezza: brava gente che lavorava con tanto silenzio quanto con sacrificio e disinteresse. Per le parrocchie, troviamo segnate nei nostri appunti quella di S. Fedele a Milano, che ha portato la sua opera nei comuni di Gualtieri, Santa Vittoria e Mezzano Inferiore, nella Bassa Reggiana; quella di S. Maria del Soccorso, di Livorno, che ha inviato un carico, dalla P.C.A. dirottato direttamente su Ferrara; quella di S. Maria Maddalena di Bologna, che, oltre ad organizzare un centro della P.C.A., ha raccolto (si tenga presente che la parrocchia conta non più di 3.000 anime) ben 54 alluvionati, ricoverati e mantenuti in tutto dalle sue famiglie. Tra gli istituti di istruzione si sono fatti un nome specialmente l’Arici di Brescia, per la sua preziosa opera di raccolta e per il disimpegno dei servizi più essenziali presso la locale direzione delle opere assistenziali; il Leone XIII di Milano, i cui giovani, insieme col p. Tagliapietra che li guidava, sono divenuti leggendari nel settore di Villadose traendo in salvo 2.843 persone; l’Antonianum di Padova, il quale e per la vicinanza ai luoghi del disastro, e per esser sede del centro regionale della P.C.A. per le Tre Venezie e per l’alto spirito religioso e la capacità organizzativa degli universitari, in buona parte congregati mariani, che lo frequentano, ha scritto una delle sue più belle pagine di attività cristiana. Bastò che il p. Messori, delegato regionale della P.C.A., descrivesse loro che cosa stava succedendo nel vicino Polesine, perché i 150 universitari, coadiuvati dai cento giovani della scuola di religione, nonché dalle sorelle e dalle mamme loro e di questi, si dessero a corpo morto all’impresa di soccorso. Infaticabili, senza un lamento, sorridenti, si avvicendarono notte e giorno, in turni di quattro ore ciascuno, alla stazione per smistare, rifocillare e rivestire i profughi (60.000 passati in città, 45.000 sistemati nella provincia); si fecero facchini per scaricare i camion affluenti (ben 27 in un giorno) ed un treno di viveri; fatta la laboriosa cernita dagli aiuti femminili, ricaricare i camion in partenza e scaricarli sui luoghi alluvionati; si fecero guide e coraggiosi salvatori di persone e di animali; uno fu l’organizzatore della «zona 3», un complesso di paesi oltre Cavarzere, dove si erano ricoverati 4.500 profughi; un gruppo di radioamatori contribuì alla salvezza di numerose persone della stessa zona di Cavarzere, installando di propria iniziativa ponti radio a Cavarzere, ad Adria e a Rosolina; uno studente di medicina, trasformato in ambulatorio un locale della canonica del paese, si fece infaticabile assistente dei due medici tedeschi accorsivi...
15 Di particolare importanza l’opera svolta dall’E.C.A. Ferrara, sotto la direzione del commissario prefettizio, sia nel lavoro di smistamento ed inoltro alla stazione (si pensi che vi passò un’ondata di 80.000 profughi!), sia nell’assistenza diretta ai rifugiati, col massimo centro al Lanificio (circa 300 ricoverati), ottimo per ordine e disciplina, sia per la prevenzione e correzione di abusi e d’inconvenienti.
16 Tra l’altro la P.C.A. riceveva dalle Caritas europee: Caritas austriaca: 100 mila scellini dall’em. card. Innitzer, arcivescovo di Vienna; offerte di ospitalità per 800 bambini presso famiglie austriache; raccolta promossa nelle varie diocesi. — Francia - Secours Catholique: tre milioni di franchi francesi; una camionetta; indumenti. — Caritas del Lussemburgo: 5 vagoni d’indumenti e generi di conforto raccolti tra i cattolici del paese. — Germania – Caritas Cattolica: un vagone di viveri da Monaco; sottoscrizione pubblica dei giornali cattolici a favore della P.C.A.; una raccolta indetta dai vescovi per poter mandare in Italia baracche e utensili per completare l’arredo familiare. — Belgio - Caritas Cattolica: 60 vagoni di generi di conforto (viveri, scarpe, indumenti). — Caritas Svizzera: 15 casse d’indumenti nuovi e medicinali; in denaro: 2 milioni di lire. Fra le tante espressioni di solidarietà sono stati offerti 2.000 posti per ospitare bambini presso famiglie dalla Caritas di Spagna e da molte altre organizzazioni cattoliche caritative e da paesi che non hanno organizzazioni caritative nazionali.
La War Relief Services (U.S.A.) inviava due miliardi di unità oxford di penicillina, 3.750 fiale di streptomicina, 500 fiale di cloromicetina, mezzo milione di vitamine plurivalenti, 1.500 Lbs. di latte in polvere per neonati, 2.000 Lbs. di vari generi di conforto e 2.800 coperte; tutto ciò fu trasportato in Italia da un aeromerci messo a disposizione dalla Trans World Airlines (T.W.A.).
17 Esse sono: 1) Assistenza religiosa e spirituale, diretta dal cappuccino p. Romano da Como, della Crociata della Bontà; 2) Assistenza sociale; 3) Assistenza dei bambini nelle colonie; 4) Assistenza sanitaria; 5) Corrispondenza, stampa e propaganda; 6) Viveri, indumenti ed automezzi; 7) Informazioni, protocollo e archivio.
18 Tra le altre a Cattolica, a Cesenatico (con 276 ospiti), a Riccione, a Chiavari (con 185 bambini), al Calambrone di Livorno, alla Città dei ragazzi di Ferrara (130 piccoli), a Loreto con due centri di 720 profughi, a Sondrio, S. Maria di Cadore, Caorle...
19 Per comprendere appieno la portata di questa cifra si noti che essa rappresenta «il numero di giornate che è necessario garantire ai braccianti agricoli per dare a tutti una sia pur minima possibilità di vita» (cfr A. D’ALANO, La riforma del Delta Padano, in L’Agricoltura Italiana, 1° ottobre 1951, p. 476. Di quest’articolo ci siamo abbondantemente serviti per integrare con dati precisi la nostra personale inchiesta).
20 Composti dal sindaco, dal parroco, dal maresciallo dei carabinieri, da un probo cittadino e dal presidente dell’E.C.A.
21 Cioè «20 trattori, 10.000 q.li di grano, 40.000 di farina, 2.500 di zucchero, 2.500 di semola, 100.000 scatole di latte, 60 milioni di lire»; dati forniti dall’Eco del Polesine, Bollettino a cura della Camera del lavoro di Rovigo, n. 11 (31 dic. 1951), ricco di molte notizie ma anche di parecchio veleno. «Trattori e non carri armati» è la testata dell’articolo di fondo; «com’è noto procedono a un ritmo molto lento, con mezzi inadeguati e mano d“opera insufficiente», vi si dice dei lavori della rotta di Occhiobello esaminati dalla commissione sovietica. Un capolavoro è la corrispondenza dai Centri di raccolta degli sfollati. Quelli di Ferrara assicurano «che in tutti v’è l’orgoglio di riorganizzarsi nelle proprie leghe e nei partiti democratici» (lo scrivente, cui è noto quanto è avvenuto a Ferrara, può testimoniare che questo è ridicolmente falso). Quelli di Pontelagoscuro si lamentano delle «autorità di polizia che hanno compiuto ogni sforzo per considerarci prigionieri. Non vi sono riusciti. Ci siamo uniti per difenderci dalle manovre governative: non riceviamo alcun sussidio» (altro falso!), «e molte famiglie sono alloggiate in vagoni bestiame delle ferrovie» (questo è vero!). Anche quelli di Migliarino e di Forlì informano che «si sono organizzati nei sindacati, e che hanno il fermo proposito di unirsi e di battersi». Più originali sono quelli di Cesena: «Nessuno di noi si sente la minima colpa per la tragedia che ha colpito il Polesine. Colpevoli sono i governanti che nulla hanno fotto per evitare il dilagare delle acque» (ma come scrivono bene questi compagni sinistrati!) «e che oggi vorrebbero trattarci da schiavi». Tragici addirittura sono quelli di Trento: «Più di venti» (quanti precisamente?, per la storia) «alluvionati alloggiati a Trento... ed assistiti dalla Pontificia Commissione di Assistenza sono partiti nei giorni scorsi alla volta delle loro case, dichiarando di non poter più oltre resistere al sistema applicato nei loro confronti».