Articolo estratto dal volume II del 1955 pubblicato su Google Libri.
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Quasi al centro di una conca, che per una ventina di chilometri si apre ad ellisse tra l’appennino umbro e il marchigiano, è sita la città di Gubbio1. Al viaggiatore che vi arrivi dalla provinciale di Perugia appare distesa e digradante a scenario; tre monti le fanno da fondale: l’Ingino al centro, il Calvo a sinistra e l’Ansciano a destra; tutti e tre macchiati di radi ciuffi di verde le spalle ferrigne. Dalla strada alla piazza, in cui quella sbocca, l’apparato scenico si allarga come sotto una carrellata: case e palazzi turriti si aprono ad anfiteatro ed incombono: sopra tutti il Palazzo dei Consoli, col suo giuoco di merli, di logge, di archetti e di bifore e, sullo spigolo più avanzato, alta e massiccia, la torre campanaria.
Nella piazza pigro è il traffico dei veicoli e rari sono i passanti. Sembra di stare su d’un palcoscenico a recita finita. Se curiosassimo tra le quinte? Penetriamo in una delle viuzze o delle cordonate che s’inerpicano a raggiera dalla piazza tagliando le strade che corrono, in piano e parallele come tante isoipse, sui fianchi dell’Ingino, e di colpo ci sentiamo trasportati nel più inatteso medioevo. Le facciate delle case, quasi tutte in conci di calcare dalle commessure perfette, sono annerite e patinate dal tempo. In basso le porte vi scavano ombre fosche sotto gli archi romanici o le ogive appena accennate; in alto le finestre si aprono, sulle muraglie compatte, come feritoie. Un fascino da scenografia notturna spira dagli arconi di sostegno della Piazza della Signoria, dagli archi ribassati che scavalcano le stradette, a volte tanto ravvicinati e bassi, che le cambiano in sottopassaggi, appena rotti da chiazze di luce, incorniciati di muschio e incoronati da ciuffi di capperi e di capelvenere.
Non c’è dubbio: siamo al tempo dei Fioretti, o, al più, delle signorie, sotto i Gabrielli o i Montefeltro. Quel drappello di giovani, che animosamente scendono dalla costa cantando, sono dei mille che partono per la crociata al seguito di Pietro l’Eremita; quel fraticello, che attraversa zoccolando la piazzetta, tutta lastricata a schegge messe di taglio, certamente è un frate al seguito del figliolo di messer Bernardone, che l’altroieri da Assisi è arrivato a Gubbio. Un lupo gli tiene dietro? Niente paura: è il lupo di Gubbio, già «crudele bestia», che entra «dimesticamente per le case, a uscio a uscio, senza fare del male a persona, e senza esserne fatto a lui»2. Quell’omino, che intravedi attraverso l’impannata aperta, curvo sullo scrittoio, è il miniatore «Oderisi – L’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte – Che alluminar chiamata è in Parisi»3. Scorgi là quell’ombra incappucciata che entra da Porta Metauro? È Dante Alighieri, il quale ne viene dalla forra del Camignano con negli occhi i suoi gradoni a strapiombo, i quali gli serviranno per figurare i gironi del Purgatorio. Quei muratori, che s’affaccendano nella strada, evidentemente smurano una delle tante «porte del morto», e quando la bara ne sarà uscita, la rimureranno, «come vuole l’uso delli nostri maggiori». Due buoi aggiogati sbucano da una traversa? Vedrai che, appresso al timone, comparirà il carroccio, con in cima la campana e il pennone del comune! Senti alle tue spalle uno scalpitare di cavalli ed un subito vociare come di gente che fugge? Scappa e non ti voltare: è il cardinale d’Albornoz, che, coi suoi fanti, armati di alabarde e chiusi nelle corazze e nelle celate, irrompe nel castello conquistato...
Rompono l’incanto il clacson di un’auto, che chiama dalla piazza, e il fragore di una moto, che balza da una svolta e si ferma fremente avanti a un negozio di radio: una stonatura fuori programma in questo paesaggio irreale. Ma l’incanto riprende. La vita indaffarata e frenetica, il progresso fragoroso quassù arrivano smussati, attutiti. Le grandi strade di comunicazione, la Tiberina e la Flaminia, insieme con le ferrovie, la Roma-Firenze e la Roma-Ancona, passano, di qua e di là, una ventina di chilometri lontano, oltre la chiostra di monti che ci circonda. Prima della guerra una ferrovia a scartamento ridotto ci legava a Umbertide e a Fossato di Vico: ma, per merito dei tedeschi, ora è tutta a pezzi, come un bel giuoco rovinato da ragazzini dispettosi; le mucche pascolano tra i suoi binari, e dal terrapieno che sovrasta la strada, volgono i grandi occhi umidi a guardare le corriere che sfrecciano... Le corriere, di solito non troppo frequenti né troppo affollate, ma che diventano frequentissime ed affollatissime verso la metà di maggio, quando da Perugia, dalla valle tiberina e dalle Marche salgono, non più solo turisti in cerca del fascino dei secoli lontani, di cui Gubbio è ricca forse più di ogni altra città dell’Umbria, o dotti glottologi e paletnologi, desiderosi di vedere le famosissime Tavole eugubine4, una delle voci più lontane che l’umanità ci abbia tramandato, o il teatro romano, ma popolo medio, popolo autentico, composto prevalentemente di eugubini d’origine o d’elezione, che da tutti i punti d’Italia, e anche dall’estero, accorrono, giudicando triste, come un anno senza Pasqua, l’anno che non fosse rallegrato dalla sacra baraonda del 15 maggio, vigilia di sant’Ubaldo.
La grande giornata
Gli abitanti di Gubbio hanno fama di matti tra le genti umbre, senza dubbio per la sfrenata allegria generale con cui celebrano la sagra del loro santo patrono, quasi a sfogo di tutti i bollenti umori compressi durante trecento sessanta quattro giorni dell’anno.
La farandola collettiva comincia alle cinque del mattino, quando il sole, già sorto sui monti, ancora non s’è affacciato sulla conca, con la pittoresca «sveglia dei capitani». Una mezza dozzina di giovani, con lunga fascia celeste sulle camicie e i calzoni bianchi, appesi a tracolla i profondi tamburi spicchiati e multicolori, percorrono tambureggiando le vie ancora deserte, sostano sotto le finestre dei capitani delle tre corporazioni e fragorosamente danno loro il buon giorno. Presto le vie cominciano ad animarsi. Alle otto, uomini, donne, ragazzi s’avviano verso San Francesco della Pace5. Siccome la chiesetta è piccola assai, la messa sono costretti ad ascoltarla sostando nella piazzetta antistante, sicché il sole scherza sui loro vivaci colori come su un campo di grano, di margheritone e di papaveri: un campo che si abbatte, come sotto un colpo di vento, al primo trillo dell’elevazione e si rialza a elevazione terminata.
A dir la verità la devozione non v’è eccessiva: a tutti prudono le mani e la lingua in attesa dell’imminente commiato liturgico. All’Ite, missa est, ecco che i pochi che erano dentro rinculano sui molti di fuori, e tutti si pigiano sotto il palco eretto a ridosso della chiesetta. Personalità civili e festaiole vi salgono; una bimbetta emozionatissima cava di fuori da un bussolotto alcuni nomi, un notaio li scrive su una pergamena istoriata, le trombe squillano, l’araldo la legge: i capitani dell’anno che viene sono eletti6. Grida, approvazioni, battimani. Dalla chiesetta, loro annuale ritiro, ora escono le tre statuette della festa: un baldanzoso san Giorgio a cavallo, un sant’Antonio eremita e sant’Ubaldo, rutilante di similori nella mitra e nel piviale sfarzosi, ed iniziano, nimbati di numerose lampadine elettriche, a passo di carica, il giro della città. Subito la luce del sole, già unita, diviene rifratta; i vari colori si separano e si concentrano: le casacche celesti vanno dietro al loro celeste cavaliere, quelle nere si accostano al funereo eremita, le gialle fanno ressa intorno al vescovo ammantato. D’ora in poi, per tutta la giornata, gli evviva dei «ceraioli» al proprio santo prendono il tono di sfida, se non proprio di provocazione, e ad essi rispondono, secondo le simpatie, le parentele e i colori, sullo stesso tono, quelle del pubblico.
Deposti i tre santi nella Sala maggiore del Palazzo dei Consoli, le sfide per un po’ sbolliscono: gialli, azzurri e neri si placano intorno alle tavole imbandite per una prima colazione fraterna. Li rincontriamo, rifatti «nemici», tutti a Porta Castello. Il rito vuole che laggiù ogni «ceraiolo» si veda appuntare sulla casacca dalla sua ragazza un mazzolin di fiori, e ogni capitano si abbia in regalo una brocca di maiolica ansata e dipinta. Così decorati, capitani e ceraioli si dispongono in ordine di parata, iniziano il secondo giro della città; e questa volta tutto il popolo è fuori a far tifo per la compagnia del proprio colore. Approfittiamone per vedere la consistenza di questo strano esercito, ché così ordinato non lo vedremo più!
Le compagnie procedono su file serrate al comando dei rispettivi capitani e «capidieci». Tutti i ceraioli, uomini fatti e giovanotti, portano lunghi calzoni bianchi, berretto, fazzolettone e fascia rossi sulle casacche del colore delle antiche corporazioni o università d’arte e mestieri della città: giallo per i muratori, celeste per gli artigiani, nero per i contadini. Bambini e bambine, vestiti alla stessa maniera, li affiancano: i più piccini sulle spalle dei papà orgogliosissimi... Come il primo giro, anche questo secondo termina al Palazzo dei Consoli: essi vi penetrano, e alle undici e mezzo le valve del portale si chiudono su di loro: sulla scalea rimasta libera sta per cominciare la grande cerimonia civile e religiosa.
Nelle piazze sfilano i canonici del duomo precedendo il Vescovo in abiti pontificali e i suoi ministri; sfila il corteo del Connestabile: cavalieri vellutati e araldi dalle pazienze svolazzanti, armigeri inguainati in giustacuori lucenti e consoli massicci nei robboni di seta, paggi raffaelleschi e mazzieri dalla feluca crestata di pizzo, vessilliferi, trombettieri, tamburini, e, a cavallo, incappucciato e fioccuto, il dittatore della festa, colui al quale, sotto il gesto benedicente di sua eccellenza il Celebrante, vengono rimesse le chiavi della città e uno speciale stendardo, a significare il suo supremo potere per il buon svolgimento della festa e a gloria del santo Patrono. Nella piazza, dove si è fatto un attonito silenzio, si sentono le parole della formola solenne, poi scoppia un clamore immenso, ritmato dallo squillare degli oricalchi e dallo sventolare dei vessilli e delle drappelle allineate sul sommo della scalea: ed è un tripudio di riflessi, un caleidoscopico ribollire di sprazzi, un’orgia di colori sotto il sole allo zenith.
I «Ceri»
Ogni anno, la prima domenica di maggio, tre affari neri e ingombranti vengono calati dal Monte Ingino in città. Si tratta di tre grosse travi di legno, lunghe sei o sette metri, che passano da parte a parte, congiungendoli, due prismi rastremati a piramide, essi pure di legno, sì da formare come degli spropositati pesi da sollevare, con nel mezzo una strozzatura per impugnarli. Le tre macchine, scure e massicce, portano sui fianchi, in alto e in basso, quattro lunghe «manicchie» per offrire presa ed assicurarvi le funi necessarie a riportarle in equilibrio qualora strapiombassero. Guardiamoli bene, e, se possibile, con un po’ di fantasia, ché proprio questi tre sgraziati rulli compressori, pesanti ciascuno una mezza tonnellata, sono i notissimi «Ceri» di Gubbio, che fanno la caratteristica di una delle feste più antiche e più originali del mondo, certo la più colorita del folklore italiano.
Ripuliti e rimessi in sesto dalle ferite dell’anno scorso, essi attendono la loro ora stesi in terra in un lato della Piazza, poco distanti dalla scalea del palazzo. Qualche minuto prima di mezzogiorno il connestabile, forte della suprema autorità conferitagli, fa sgombrare scalea e ripiano sì che resti libero un passaggio dal portale ai ceri. Tutti, della folla ammassata, portano gli occhi dagli orologi alla torre campanaria, che s’erge sullo spigolo del palazzo. Beh, matti, almeno quei quattro giovanotti, sono di certo! Per sonare il campanone non ci si sono posti sotto, ma sopra i suoi bilici, i piedi poggiati sulle quattro cicogne, due per bilico, che s’innestano nel suo mozzo, e intendono farlo sonare portando alternativamente il peso del loro corpo ora sull’una ora sull’altra... Il giuoco spericolato comincia pochi secondi prima di mezzogiorno. A mezzogiorno in punto un primo tonfo scuote l’aria, presto seguito da altri, e poi da altri ancora,a tutta volata; nell’altalenare indiavolato, ora la bocca della campana e il suo battaglio, ora i quattro sonatori si affacciano alle strombature come se ne volessero schizzare fuori... Ma tant’è: ormai campanone e campanari potrebbero fare a volo l’ottantina di metri che li separano dalla piazza, e la gente non se ne accorgerebbe, tutt’intenta com’è a quanto avviene di sotto.
Il portone si è aperto: i ceraioli ne escono come catapultati, e rotolano, onda policroma, su cui galleggiano, roteando, le tre brocche e i tre santi, sulla scalea, come se uno spropositato carico di melloni, di zucche e di pomodori avesse ribaltato; vociando raggiungono i ceri, rizzano sulle stanghe le tre barelle destinate a portarli, in fretta e furia innestano al sommo dei ceri i santi, e i ceri alle barelle, li incavicchiano mantenendoli orizzontali; i cavicchi, perché tengano saldi, inondano con l’acqua delle brocche, poi lanciano queste, più alto che possono, sulla folla. Mentre i più fortunati si tuffano frenetici a raccogliere i cocci, che portano fortuna, sul viluppo dei corpi in contesa emergono improvvisi tre «capodieci», i quali, arrampicati sulle barelle e appesi alle stanghe superiori, attendono frementi l’ordine del connestabile. Al baluginare della sua spada si sporgono in avanti e fanno da contrappeso: richiamate anche dai ceraioli, le stanghe si abbassano, i ceri salgono al cielo: leggeri, irreali: ondeggiano, strapiombano, si riprendono: la piazza è tutta un clamore. La «mostra», che ora comincia, segna l’inizio della prima pazzia collettiva degli eugubini. I ceri lasciano là piazza e se ne vanno in giro ognuno per conto proprio, e tutti dietro: portatori, mute di ricambio, spettatori, noncuranti di urtoni e di pestate, nel tentativo di mettersi sotto ai loro stangoni. E non c’è via né finestra che non se li veda passare avanti come una romba.
Dopo due ore di sarabanda, tutti si ritrovano presso il Palazzo: i ceri per «sedersi», i ceraioli per pagarsi una satolla coi fiocchi nelle sale inferiori (le superiori, quattrocento coperti, sono per gli ospiti); e siccome la lista delle vivande parla di astinenza in onore di sant’Ubaldo, ma tace del vino, i giovanotti non si fanno scrupolo di mostrarsi bibaci. E gli effetti dell’abboccato di Gubbio si vedono quando i ceraioli escono dal simposio. Che occhi, che voci, che brio! Si spandono per le vie pazzarelloni, motteggiando; fanno cerchio intorno alle ragazze, impaurite e divertite, e ballano il salterello; prendono in mezzo i forestieri e gli avversari politici, e ci giostrano, a dose doppia se quelli non ci stessero, e li lasciano solo quando li vedono anch’essi assaliti dalla mattana. Così l’allegra baraonda cresce e contagia tutta la città, che di nuovo si riversa tutta per le strade a rivedere i suoi ceraioli, finché questi in parata non si recano a riprendere i ceri per l’ultimo e più spettacolare sforzo della giornata.
L’ultima «pazzia»
Ha inizio nel tardo pomeriggio. Ricevuta dal Vescovo, circondato dal suo clero, la benedizione con la reliquia di sant’Ubaldo, i ceri partono in corsa sfrenata. Preceduti dal trombettiere, da due palafrenieri e dal connestabile a cavallo, percorrono, senza ristare, tutta Via Savelli, precipitano come una fiumana della ripida «discesa dei neri» di Porta Romana, svoltano ad angolo retto per il Corso Garibaldi e chiudono il giro in Via dei Consoli. La furia con cui la prodezza in mezz’ora è portata a termine è indescrivibile: ma essa è solo il preludio della fatica maggiore che attende gli ardimentosi portatori.
Essi, per prepararcisi a dovere, si raccomandano ai loro santi: c’è chi ne bacia il Cero e chi ci si arrampica su e va ad abbracciarne la statua; ma siccome è risaputo che la grazia non distrugge la natura, tutti chiedono un supplemento di gagliardia ai barili di vino. Sodisfatti e rinvigoriti, eccoli di nuovo sotto il pondo attendere l’ultimo segnale di via del sindaco, affacciato dal Palazzo Pretorio. Dalla piazza gremitissima, dalle finestre e dai balconi straripanti, fin dai tetti, tutti guardano lassù. Ecco: un fazzoletto bianco ha sventolato: via! I ceri scattano e salgono verso la piazza: prima sant’Ubaldo, poi san Giorgio, ultimo sant’Antonio. Quivi giunti, compiono l’attesissima «birata»7, facendo tre volte, a passo di carica, il giro della piazza, sempre l’uno dietro l’altro, arando la folla compatta con un solco che subito si richiude. Tutt’intorno è una baraonda di colori e di rumori: donne che strillano temendo una catastrofe dal subito pendere di un cero, partigiani che acclamano il proprio santo per soverchiare gli evviva tributati agli altri due, volenterosi che, a manate e a urlacci, tentano di aprire una strada ai ceraioli fatti ciechi dal sudore e dalla fatica, clamori di qualche incauto travolto da quelle furie, battimani e vociare indistinto di quanti seguono dall’alto la vorticosa giostra.
Terminata la «birata», tutta la piazza è un frenetico accorrere verso Porta S. Ubaldo, appresso ai ceri. Ormai sembra che tutti li abbia morsi la tarantola. Se qualcuno durante la giornata fosse riuscito a restare padrone di se stesso, ora non c’è eugubino o forestiero che non bruci di sacro entusiasmo: preti, soldati, turisti, ragazzi, donne incitano, spalleggiano, danno una mano nelle mute, sospingono, sottentrano alle stanghe, specialmente quando i ceri, sorpassata la porta che dà verso il monte, ne cominciano a salire le ripide serpentine. Si tratta infatti di portarli lassù, a più di ottocento metri, con uno sbalzo di trecento, sempre a corsa sfrenata, e non subire la suprema vergogna di farsi «mettere gli stangoni», cioè di farsi raggiungere dalle stanghe dei ceri che vengono dietro, dato che non è permesso sorpassarsi. La fatica è improba, ma gli aiuti non mancano. Per tutto il monte sono disseminate, sparse e a gruppi preordinati, le forze fresche che subentrano agli sfiancati, o almeno per spingere o per tirare con le funi, e, qualora un santo riesca a mettere gli stangoni all’altro, per acclamare o per vituperare, con la lingua fuori, ed anche per rinforzare la soda scazzottatura che ne segue.
I pochi rimasti in città seguono l’emozionante vicenda dalle finestre e dai tetti, si esaltano e scommettono, man mano che i ceri, nella luce dorata e radente del tramonto, doppiano le curve, diventano sempre più piccini, finché spariscono dietro la spalliera di cipressi che introduce nella basilica del santo. Lassù i ceri vengono sbarellati e riposti per il maggio venturo, i santi spiccati per essere ritrasportati, sempre a spalla dei ceraioli, in città, a San Francesco della Pace, accompagnati da migliaia di fiaccole; sicché alle prime ombre del vespero, un gigantesco serpente di fuoco si snoda sui fianchi del monte e attraversa la città illuminata e ingualdrappata; al richiamo, tutt’intorno sui monti si accendono a centinaia i falò, e fino a notte inoltrata durano i canti e i motteggi, le musiche, gli scherzi e le bravate di un popolo che è diventato, per un giorno, tutta una famiglia, senz’altri pensieri che di ruzzare, sotto la magnanima protezione dei tre santi, a onore dei quali ben potranno gli eugubini, senza lamentarsi, finire la giornata mettendosi impacchi di malva calda sulle spalle ecchimosate o ingerendo generose cucchiaiate di bicarbonato contro le spranghette incipienti!
... multiplicatis intercessoribus...
All’immediata piacevole esaltazione che prova visitando Gubbio ed assistendo alla sua sagra patronale, appena egli n’è uscito fuori, subentra nello spettatore, per poco che sia uso a guardare un poco oltre l’apparenza delle cose, la curiosità di sapere a che debba la cittadina quella sua sì accentuata fisonomia medievale, e quali origine e significato abbiano mai quei suoi strani ceri; e risponde a se stesso che, evidentemente, la prima questione si scioglie considerando la posizione geografica di Gubbio, chiusa, come abbiamo detto, tra i monti e lontana da ogni grande via di comunicazione. Fate che essa venga a trovarsi nel tracciato della progettata trasversale Livorno-Ancona, o di altra strada di grande traffico, ed anche Gubbio subirà il prosaico livellamento prodotto dalla odierna civiltà meccanica. Naturalmente, se le industrie e il commercio allora porteranno la prosperità alla loro città, gli eugubini si rallegreranno, e noi con essi; ma non ci sarà amatore di cose buone e di cose belle che non vi vedrà anche un motivo di rammaricarsi. Chi ha visto le regali bellezze di Roma e di Firenze, di Siena e di cento altre città d’Italia deturpate dai casoni geometrici innalzativi dall’architettura razionale, e le più gentili valli alpine, le più pulite spiagge della Sicilia, i rusticani civilissimi borghi della Sardegna imbruttiti dal più deteriore americanismo, con dispiacere vedrà sparire un’altra residua espressione di millenaria civiltà che fa sì bella l’Italia e la vita.
Non meno malinconiche considerazioni l’accompagnano nella ricerca che riguarda i ceri. Egli ricorda che nel discreto drappello di competenti che ne hanno trattato, le opinioni sono diverse e spesso contrastanti8, ma sa pure che, qualunque ne sia stata la più remota origine, oggi la festa dei ceri resta uno dei più vistosi resti di quell’armonica fusione di valori superiori che in Italia sacrò la vita umana e umanizzò la vita religiosa nell’età di mezzo. Se si trattasse solo di portare in trionfo simulacri o simboli più o meno macchinosi, Gubbio non la pretenderebbe al primato tra i «gigli» di Nola, il carro di santa Rosalia a Palermo, la macchina dell’Assunta a Messina e a S. Maria Capua Vetere, i «candelieri» di Nulvi e di Sassari, e, fra tutti, la macchina di santa Rosa a Viterbo9; se poi la festa consistesse solo in una più o meno imponente coreografia di masse e di costumi, come preporsi, per ricordarne solo una, alla celebratissima festa del Palio di Siena? Ma no: alla sagra di Gubbio avviene qualcosa che non avviene altrove. Avviene che il popolo non resta spettatore; che non ci sono né cordoni militari né steccati a separarlo dagli attori: egli stesso, al completo, è attore; ed avviene che la religione cattolica vi è sempre presente con le sue chiese e i suoi santi, col suo clero e coi suoi riti, coi suoi simboli e con la sua vita: vi è presente appunto come una volta, prima che l’illuminismo e il liberalismo paralizzassero a morte tanta parte dell’Europa cattolica, era onnipresente nella vita del fedele.
Il teologo e il moralista potranno trovarsi d’accordo con lo storico e il sociologo nel lamentare in quei secoli indebite commistioni e sconfinamenti tra sacro e profano, tra competenze dei laici e mansioni del clero, ma certo è che né gli uomini singoli, né la società tutta intera risentivano dell’inumanissima divisione tra vita di coscienza e vita civile che oggi mortifica la maggior parte di noi. Sulle piazze dei nostri comuni, cattedrale e palazzo civico si affiancavano; sul sagrato della chiesa si dava il teatro al popolo e non di rado in chiesa lo stesso popolo celebrava le sue massime assise. Per restare vicino al suo popolo la Chiesa, maternamente, non solo umanizzava al massimo i riti sacramentali, ma condiscendeva a compromessi che oggi ci paiono profanazioni. Per persuadersene si leggano nel Pontificale Romano le cerimonie per la benedizione di un neo soldato e per il primo taglio della barba10; si legga come si svolgeva nel medioevo la festa degli asini e, nel secolo XII, la cerimonia del porcello ai Santi Apostoli di Roma11; ci si figuri come doveva comparire il vescovo di Teramo che, tra gli altri privilegi, aveva quello di portare a tracolla, sopra la pianeta, nelle messe pontificali, una spada12; si cerchi negli antichi cerimoniali come icasticamente si celebrava a Roma, e altrove, la festa di Pentecoste, con piogge di rose e di batuffoli accesi, profumi, trombe, voli di uccelli e spari13; si vada a vedere quello che ancora ne resta qua e là in Italia, come l’«inchinata» di Tivoli e la «barabbata» di Marta sul Lago di Bolsena, la benedizione degli animali domestici a Roma, i «pugnaloni» in onore della Madonna ad Acquapendente e di sant’lsidoro ad Allerona, la «colombella» a Viterbo e lo spettacoloso scoppio del carro il sabato santo a Firenze, provocato anch’esso da una colomba razzo, che, al termine della messa pontificale, a mezzogiorno in punto, parte fischiando dall’altare maggiore, incendia il carro in piazza e se ne ritorna, sempre fischiando a reazione all’altar maggiore, a scoppio avvenuto... Erano quelle le espressioni più spettacolari di una compenetrazione del sacro nelle azioni più minute e correnti della vita quotidiana. Allora, infatti, la massaia segnava con la croce la farina impastata per il pane e il latte in quaglio per il formaggio, il contadino metteva croci intrecciate a protezione degli arati e dei pagliai, in famiglia si mettevano la candela e il ramo di ulivo benedetti a capo del letto a santificare il riposo e l’amore. «A Dio!» salutavano chi partiva e chi restava; «a Dio piacendo» e «volesse il cielo» significavano le previsioni e i desideri; con l’invocazione della S.ma Trinità si aprivano i testamenti così come le convenzioni tra gli Stati.
Che dire delle relazioni coi santi del paradiso? Erano, quelli, tempi di viva fede, e il cielo, coi suoi comprensori, era per i fedeli una realtà non meno solida della terra su cui essi ancora poggiavano i piedi. E non si facevano scrupolo di sfruttarne la potenza d’intercessione presso Dio, da loro raggiunto e posseduto, e la pietà ch’essi dovevano ancora sentire per i poveretti, i quali sulla terra fossero alle prese coi malanni già da loro sofferti. Per ogni malattia il fedele aveva il suo medico celeste: santa Lucia per il mal d’occhi, sant’Apollonia per il mal di denti, san Cataldo per l’ernia, san Biagio per la tonsillite, san Pietro martire per l’emicrania; sant’Uberto era valido contro l’idrofobia, sant’Andrea Avellino contro l’apoplessia, san Bernardino da Siena contra la raucedine; né i mali fisici e morali n’erano sprovvisti: calunnie e mormorazioni, infestazioni di demoni e di scrupoli, terremoti e cadute, fulmini e furti si evitavano ricorrendo a sant’Onofrio e a san Giovanni Crisostomo, a sant’Ubaldo e a sant’lgnazio di Loyola, a sant’Emidio e a san Venanzio, a santa Barbara e al Buon Ladrone... Anzi, non c’era circostanza della vita che non avesse il suo santo protettore: nei viaggi di mare c’era san Francesco Saverio, per trovare oggetti perduti c’era sant’Antonio da Padova, per passare agli esami san Giuseppe da Copertino, per trovare marito san Pasquale Baylon, per aver prole san Francesco di Paola e santa Rita, la quale era anche indicata, con san Gregorio taumaturgo, per i casi disperati; per un parto difficile c’era sant’Anna, e per una felice morte san Giuseppe...
Del resto, l’assistenza dei santi, più che a circostanze straordinarie, si estendeva a tutta la durata della vita umana. Rifacendosi alla concezione giuridica del patrono, tipicamente romana, come di un capofamiglia, cui incombe la cura dei suoi clientes e liberti, la Chiesa, col nome di battesimo ne assegnava almeno uno ad ogni fedele nell’atto stesso con cui lo costituiva persona nella società cristiana; e, come se questo non bastasse, poi riconobbe patroni anche alle singole professioni e agli stati di vita: san Luca ai pittori e ai medici, sant’Isidoro agli agricoltori, sant’Uberto ai cacciatori, san Giuseppe ai falegnami, sant’Anna alle madri di famiglia, san Cassiano ai maestri, santa Barbara ai minatori, sant’Omobono ai sarti, i santi Crispino e Crispiniano ai calzolai, santa Cecilia ai musici, santa Francesca Romana alle vedove...; ed ancora, nella fiducia che, multiplicatis intercessoribus, più clemente si rendesse l’attenzione di Dio alle necessità di questo mondo14, ne estese il concetto e la funzione alle città, alle diocesi, agli Stati, alla Chiesa intera; così si può dire che tutti i santi del calendario e, in ogni modo, tutti i santi collettivamente presi, si trovarono come impegnati a prendersi pensiero dei loro clienti, e tutti gli uomini, per diversi titoli personali e collettivi, ad assolvere verso diversi patroni i loro doveri in servizi (operae), regali fissi (dona) e occasionali (munera); fu un continuo guardare in basso da parte dei celesti, un guardare in alto da parte dei terrestri, un’osmosi di fede tra due regni distinti ma non divisi, come sono distinte e non divise la mèta e la strada che vi porta. I santi costituivano nella vita umana un elemento necessario come l’acqua e come il pane: essi custodivano le porte della città, tutte consacrate dal loro nome; essi ritmavano lo svolgersi dell’anno e dei mesi; le litanie dei santi si recitavano nelle ordinazioni e nelle pestilenze, per benedire i campi e per accompagnare l’agonia dei moribondi; essi davano animo a lottare contro il peccato e ad emularne le virtù, erano un’arra sicura della felicità futura: perciò il culto delle loro reliquie era un dovere di riconoscenza, e l’essere seppelliti vicini ad essi un motivo di consolata speranza15.
Timori ed auguri
I ceri di Gubbio s’inseriscono in questa mentalità soprannaturale. Lo spettatore lo sente e resta insieme ammirato e turbato. Ammirato del cattolicismo, religione del «Dio tra noi», che non teme di anticipare nell’esilio quella corrispondenza d’amorosi sensi che fa lieta la definitiva società degli Arrivati; turbato di quanto potrebbe avvenire e di quanto, forse, in parte è già avvenuto. Egli sa che nella nostra devozione popolare verso i santi ci sono elementi originati da situazioni storiche transeunti e ormai definitivamente tramontate, come l’organizzazione della società romana e di quella feudale, e inoltre ci sono elementi dommatici, i quali soli, appunto perché assoluti ed intramontabili, ne costituiscono tutto il valore intrinseco, reale e duraturo. Che avverrà – si domanda – se nella fede dei singoli fedeli e nella loro convivenza comune questi valori religiosi venissero a svanire e a disperdersi? Forse i primi si conserveranno, o forse si disperderanno anch’essi, col prevalere di gusti e di usanze più consoni alla paganeggiante società moderna. Nel primo caso avremo del puro folklore, colorito quanto si voglia, ma senza più un’anima, e, dunque, più scarso di profondi valori umani e di vita che non ne siano i balli esotici delle Haway o del Tibet, là dove conservino ancora un significato religioso; nel secondo caso ci saremo, viva Dio!, anche noi adeguati alle laiche feste moderne: festival del cinema e della moda, carnevali di Viareggio e di Nizza, sagre della pesca e del carciofo, concorsi di miss e di reginette, giornate dell’Unità e raduni, parate e partite, Rallye e Derby... in cui Dio e i suoi santi sono ignorati o esclusi: ma non per questo ci sentiremo più contenti.
Lo spettatore, dopo la festa dei ceri, vissuta con lo spirito religioso che la dettò alle origini, sente che la terra è meno brutta, dato che il cielo ancora una volta si è aperto su di essa, e pensa che se, invece, un giorno l’angoscia del presente e del futuro finirà di rendere insopportabile la vita agli umani, non ostante il divertimento che il progresso meccanico avrà reso continuo ed universale, sarà segno che, rinnegate tutte le tradizioni umane e cristiane della nostra civiltà, noi avremo chiusi tutti gli spiragli che ancora, per grazia di Dio, si aprono sulle nostre teste verso l’infinito. Per lui la festa dei ceri di Gubbio è uno di questi spiragli che ancora ossigenano la nostra vita. Egli si augura che gli indifferenti, che vi assistessero e che vi prendessero parte, la comprendano come un monito e come un richiamo, sicché, ritrovando quella fede schietta che dorme nel fondo dell’animo di ogni genuino italiano, con nostalgico rammarico ripetano il lamento di sant’Ambrogio: «Potevamo contare su tanti patroni, e non lo sapevamo»: Patronos habebamus et nesciebamus!16.
1 Esauriente su Gubbio ENRICO GIOVAGNOLI: Gubbio nella storia e nell’arte, Città di Castello 1932, in-8° gr., pp. VI-308. Con molte tavv. f. t.
2 Fioretti di san Francesco, cap. 21.
3 Purgatorio, XI, 80-83.
4 Sono sette tavole di bronzo, in lingua umbra, scritte parte in alfabeto etrusco e parte in alfabeto latino. Nell’assegnarne l’età gli studiosi oscillano dal V° al II° secolo a.C. Enciclopedia Italiana, XVIII, sub voce Gubbio, p. 46; e E. GIOVAGNOLI, cit. p. 1 ss. e in Appendice, dove tutte le tavole, recto e verso, sono riprodotte in fototipia.
5 La tradizione vuole che appunto in questa chiesetta sia sepolto il lupo di Gubbio.
6 I capitani vengono eletti con due anni di anticipo, per evitare discussioni, anche di carattere politico o dettate da rivalità di famiglie.
7 Di fatto, durante la giornata le «birate» sono più di una; ma questa, della Piazza del Comune, tripla, la più spettacolare.
8 C’è chi ritrova usi agresti pagani, accettati o modificati dal cristianesimo, per esempio l’inglese HERBERT BOWER, in The Elevation and Procession of the Ceri at Gubbio, Londra 1897, in-8°, pp. x-146; altri li ritengono originati dalla vittoria che Gubbio, sotto la condotta del suo vescovo Ubaldo, nel 1151 riportò contro le truppe coalizzate di undici città nemiche; Pio CENCI, confutando il Bower, sostiene che la festa dei ceri alle origini non era altro che una vera e reale offerta di cera fatta dagli eugubini al loro Patrono; cfr I ceri di Gubbio e la loro storia, in Augusta Perusia, anno 1, fasc. 5-9, pubblicato a parte in Città di Castello, 2° ed. 1908, G. BRONZINI, in Enciclopedia Italiana, XII, sub voce Umbria, p. 750, sta piuttosto per la prima opinione, ma mentre tace del Bower, cita il Cenci, verosimilmente senza averlo letto. Per la questione cfr anche P. PERALI, Le origini artigiane e mercantili di Roma, 1832, p. 24.
9 Cfr BARAGLI, Folklore viterbese, in Civ. Catt. 1954, III, 359-369.
10 Già presso i pagani il primo taglio della barba era occasione di una cerimonia religiosa. Per una curiosa formola liturgica mozarabica del sec. VII-VIII, cfr CABROL, Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et Liturgie, II, col. 409; ed Enciclopedia Cattolica, Ili, sub voce Asino, col. 148.
11 Cfr ARMELLINI-CECCHELLI, Le chiese di Roma, Roma 1940, p. 312.
12 Cfr Enciclopedia Cattolica, XI, sub voce Teramo e Atri, col 1988.
13 Dominica de Rosa, statio ad Sanctam Mariam Rotundam, ubi Pontifex debet cantare missam, et in praedicatione dicere de adventu Spiritus Sancii, quia de altitudine templi mittuntur rosae in figura eiusdem Spiritus Sancii. Orda Romanus Xl, in MIGNE, P.L. 78, 1049; cfr Enciclopedia Cattolica, IX, sub voce Pentecoste, col. 1159.
14 ...ut desideratam nobis tuae propitiationis abundantiam, multiplicatis intercessoribus, largiaris. (Dalla liturgia, Oremus in festo Omnium Sanctorum).
15 Diciamo erano, facevano ecc. riferendoci alla tepida pietà di molti fedeli, per i quali oggi è troppo se questi usi sono argomento di erudizione; ma la Chiesa non li reputa affatto passati, anzi in questi ultimi tempi ha continuato ad assegnare con ininterrotta lena nuovi patroni morali. Ecco quelli della Chiesa universale: san Luigi Gonzaga, per la gioventù studiosa (1729 e 1926); san Giuseppe, patrono della Chiesa universale (1870); san Tommaso d’Aquino, di collegi, università e scuole cattoliche (1880); san Vincenzo de’ Paoli, di tutte le associazioni di carità (1885); i santi Camillo de Lellis e Giovanni di Dio, degli ospedali, dei malati e degli infermieri (1886 e 1930); san Pietro Claver, delle missioni tra i negri (1896); san Pasquale Baylon, dei congressi eucaristici e delle confraternite del S.mo Sacramento (1897); san Francesco Saverio, dell’Opera della propagazione della fede (1904); san Giovanni Crisostomo, dei sacri oratori (1908); sant’lgnazio di Loyola, degli esercizi spirituali (1922); san Leonardo da Porto Maurizio, delle missioni popolari tra i cattolici (1923); san Francesco di Sales, degli scrittori e giornalisti cattolici (1923); san Bernardo da Mentone, degli alpinisti, degli abitanti e dei viaggiatori delle Alpi (1923); santa Teresa del Bambin Gesti, delle missioni nei paesi infedeli (1927); san Giovanni M. Vianney, dei parroci (1929); san Michele Arcangelo, dei radiologi e radioterapeutici (1941), sant’Alberto Magno, degli studiosi di scienze naturali (1941); san Giuseppe Calasanzio, delle scuole popolari (1948); sant’Alfonso M. De’ Liguori, dei confessori e moralisti (1950); san Giovanni Battista de la Salle, dei maestri cattolici (1950); santa Francesca Saverio Cabrini, degli emigranti (1950). – In particolare per l’Italia ricordiamo: san Matteo, per le guardie di finanza (1915); san Francesco d’Assisi e santa Caterina da Siena, patroni primari (1939); san Francesco di Paola, dei marittimi e delle società di navigazione (1943); santa Caterina da Siena, delle infermiere, e santa Caterina da Genova degli ospedali (1943); san Giovanni Bosco, degli editori cattolici (1946); san Michele Arcangelo delle guardie di pubblica sicurezza (1949); san Martino di Tour, della fanteria (1951).
16 S. AMBROGIO, Epistolae: MIONE, P.L. 16, 1072. – Ha dato l’avvio a questi nostri timori ed auguri la considerazione che, purtroppo, fortissima è stata a Gubbio la maggioranza che ha votato per partiti contrari al cristianesimo e a qualunque religione, e che appunto rappresentanti di questi partiti detengono l’amministrazione del comune.