NOTE
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1 Folco QUILICI, Avventura nel sesto continente. Roma, Gherardo Casini, 1954, in-16º, pp. 262. Con amplissima documentazione fotografica in nero e a colori di Giorgio RAVELLI e dell’autore. – Gianni ROGHI e Francesco BASCHIERI, Dahlak. Milano, Garzanti, 1954, in-8º, pp. 282. Con 11 tavv. a colori, 40 in nero e 2 cartine f. t.

2 Essi sono: dott. Bruno Vailati, organizzatore, capo spedizione e collaboratore sportivo; dott. Francesco Baschieri Salvadori, dirigente scientifico; ten. Raimondo Bucher, dirigente sportivo; Enza Bucher, collaboratrice sportiva; dott. Alberto Grazioli, medico chirurgo; dott. Gianni Roghi, collaboratore scientifico e capo ufficio stampa; dott. Luigi Stuart Tovini, collaboratore scientifico; dott. Silverio Zecca, collaboratore sportivo e amministratore. Inoltre: Priscilla Hasting, collaboratrice scientifica, disegnatrice; Folco Quilici, regista del documentario sulla spedizione; Masino Manunza, operatore cinematografico; Giorgio Ravelli, realizzatore delle apparecchiature fotografiche e cinematografiche subacquee, fotografo.

3 Lo stesso G. Roghi nota che, all’uscita del suo volume, «gli studi sul materiale biologico recato, studi ai quali sono attualmente impegnati i maggiori specialisti italiani e stranieri, ne hanno potuto riconoscere una minima parte. Per l’interesse e la novità del medesimo si potranno dunque avere dati precisi sul risultato totale dell’impresa non prima di due anni» (p. X). Nell’attesa, chi volesse saperne qualcosa, legga l’Appendice di F. BASCHIERI (ivi, pp. 231 ss.), la quale, mantenendosi sulle generali per quanto riguarda notizie strettamente scientifiche, si dilunga sugli aspetti del tema che offrono maggiore interesse a lettori di media cultura.

4 Si parla di record regolarmente omologati, ché c’è chi riferisce di pescatori di spugne e di perle del Mediterraneo e in Asia, capaci di raggiungere, aiutati nella discesa da una pietra, gli ottanta metri, restando sott’acqua fino a settanta secondi. Il record di Raimondo Bucher fu stabilito nel mare di Capri il 1° novembre 1952, il campione rimanendovi in immersione un minuto e diciassette secondi (cfr F. QUILICI, op. cit., pp. 20-24).

5 Non vanno dimenticati i due film Il mondo silenzioso (1946) ed Epaves (1947), del comandante J. Y. Cousteau, che sono i primi documentari professionali sul mondo subacqueo. Ad essi si riferisce il volume dello stesso COUSTEAU: Il mondo silenzioso (Bompiani 1954, pp. 232).

6 «... ottimo per il modo con cui è scritto..., con una vivacità e chiarezza che va additata come esempio... Nessuno tra i libri francesi, inglesi e tedeschi di pesca subacquea apparsi in questi anni può competere con questo per la bellezza e l’esattezza delle descrizioni, per la sincera e modesta serenità della trattazione...»: cosi Sapere (1954, nn. 465-466, p. 196) loda il lavoro del Roghi, e termina augurandosi «che vada per le mani di molti giovani, ai quali le pagine del libro riveleranno le gioie pure e profonde che la natura riserva all’attento osservatore». Noi, per fare incondizionatamente nostro l’augurio della rivista, ci aspettiamo che il Roghi, in una seconda edizione, ne espunga alcune ombre: tali le poche frivolezze, di cui nel testo; un certo naturismo notato al Roghi dallo stesso Tesfanchiél (p. 172) con un’osservazione che certo non è un complimento per un cattolico; una illustrazione, che non sappiamo quanti giovani potranno guardare con occhio sereno, e finalmente un suo frequente intercalare (pp. 39, 50, 135, 143 e 210), che, nel parlare, e soprattutto nello scrivere, oltre che col secondo comandamento di Dio, non s’accorda con la buona educazione. A questo proposito gli raccomanderemmo – e per un suo sgarro (p. 226) anche al Quilici – l’uso del meno irriverente e non meno efficace «accipicchia» di Priscilla Hasting.
Tra i libri cui si riferisce il recensore di Sapere rileviamo Palmes et masque, di Devo KOUBI (Paris, Librairie Académique Perrin, 1954, pp. 220. Con 30 tavv. f. t. Fr. 780). L’autore è uno dei primi che abbia affrontato i rischi e gustato le sodisfazioni della pesca subacquea, dato che fin dal 1938 i littorali di Oran, di Algeri, delle Baleari, della Tunisia e della Libia sono stati testimoni delle sue prodezze di tuffatore, di cacciatore e di fotografo. Nel suo volume, che riferisce appunto le sue recenti esperienze in Algeria, non mancano pagine interessanti e aneddoti pittoreschi. Nell’insieme però si direbbe un modello di quella letteratura mediocre, che per sodisfare la più superficiale curiosità popolare e a scopo di lucro, ammannisce descrizioni impressionistiche, più ricche di aggettivi che di sostanza, e inoltre, dato il genere di sport che tratta, piuttosto greve di naturismo paganeggiante. Le sue illustrazioni, ordinarie e monotone, alcune invereconde, non superano il valore del testo.

7 Tra le leggende sfatate la più clamorosa è quella sui pescicani, dimostratisi molto meno temibili e più vigliacchi di quanto l’opinione corrente li consideri. Tramontano così le fantasie orripilanti introdotte dal Salgari ed amplificate dagli odierni fumettisti suoi epigoni, ed è per sempre smascherata l’idiozia dei corpo a corpo tra uomini e pescicani, che, dopo l’illustrissimo esempio di Tabù; (1931), di MURNAU, continuano ad infiorare le gesta dei vari Tarzan e dei Jim, che l’America, ad oltraggio della nostra intelligenza, ci propina. A questo proposito vedi in particolare: F. QUILICI, op. cit., p. 197 u., e G. ROGHI, op. cit., p. 69 ss.

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Articolo estratto dal volume III del 1955 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Eravamo alla sesta giornata della XV Mostra cinematografica veneziana e avevamo sopportato già una ventina tra lunghi e cortometraggi, novità e retrospettive di tutte le nazioni, gemebondi in maggioranza d’inumani orrori, quando il 27 agosto ci venne proiettato l’italiano Sesto Continente, di Folco Quilici: allora un senso di fresco e di pulito c’inondò l’anima. Nel liquido fluire di colori smaglianti e vividi, e nelle danze senza peso di uomini e di animali, librati nelle trasparenti profondità di Capri e tra i fantasmagorici fondali del Mar Rosso, ci sentimmo trasportati in un mondo di sogno, e, richiamati alla realtà, non sapemmo che cosa più ammirare: se l’insieme irreale di tante immagini di bellezza o la verità rischiosamente e gioiosamente vissuta dai loro scopritori, le meraviglie della tecnica e della scienza moderne o l’ardire degli sportivi, che della scienza e della tecnica s’erano fatti sì superbi alunni e padroni. Fatto sta che, sebbene il documentario si prolungasse per la durata di uno spettacolo normale e non comportasse intreccio, l’applaudimmo anche a scena aperta, ed oggi, dopo quasi un anno, il ricordo ce ne riesce ancora gradito, tanto d’invogliarci a conoscere meglio gli uomini e le vicende dell’impresa, di cui esso è uno dei più concreti risultati, leggendo i due volumi che ne trattano, e che qui presentiamo ai nostri lettori1.

Col «Formica» nel Mar Rosso

«Il Mar Rosso — c’istruisce il Baschieri — per la sua posizione e per le sue caratteristiche fisiche e biologiche che lo differenziano sotto molti aspetti da ogni altro mare del globo, pur mantenendolo per alcune caratteristiche tipiche fra quelli tropicali, già subito dopo il taglio di Suez cominciò ad essere oggetto di studi e di ricerche da parte di spedizioni organizzate da numerosi paesi europei». Nel 1891-’95 vi si recò l’Italia con la nave Scilla; nel ’95-’97 l’Austria con la Pola; nel 1903 e nel 1923-’25 ancora l’Italia: prima con la Staffetta e poi con l’Ammiraglio Magnaghi; recentemente è stata la volta dell’Inghilterra (nave Mahabis: ’33-’34, e yacht Manihine: ’48-’49 e ’50-’51) e della Francia con la nave Calypso. «Tuttavia — continua il Baschieri — poco o nulla in effetti è stato fatto, soprattutto per quanto riguarda i lavori biologici: per la fauna ittiologica, ad esempio, fa tuttora testo il Klunziger, opera che risale agli anni 1870-’71» (Roghi, pp. 234 e 235).

Non, dunque, per rifare il già fatto, il 28 dicembre 1952 una motonave, anche questa volta italiana, Formica di nome e di fatto (stazzava appena 135 tonnellate), da Napoli volgeva la prora verso il Mar Rosso, per passarvi quarantacinque giorni in navigazione e ottantacinque in lavori di ricerca, e farne ritorno il 26 giugno 1953. L’occupavano, oltre i quattro dell’equipaggio, dodici «nazionali subacquei» divisi nei tre gruppi: scientifico, sportivo e di documentazione2. Queste qualifica e distribuzione caratterizzano tutto l’operato della spedizione e fanno della sua fatica un’impresa finora unica nel mondo. I due volumi ce ne fanno convincentissima testimonianza.

C’interessano i suoi risultati scientifici? — Leggiamo la relazione ufficiale:

Sono stati raccolti pesci di interesse scientifico per circa 4.000 chilogrammi, dei quali circa 400 conservati sotto formalina o alcool o essiccati, con uno scarto quindi di 1 a 10, cioè con criterio di elevata selezione. Sono stati raccolti esemplari di circa 300 specie di molluschi, di circa 300 specie di echinodermi, di circa 40 specie di celenterati (soprattutto madreporari e corallari), nonché un cospicuo numero di poriferi, vermi, tunicati, crostacei, oltre ad alcuni saggi planctonici di zone diverse; il tutto contenuto in 53 casse apposite e vetreria diversa. Nei momenti liberi è stata formata una collezione di crani e di uova di uccelli locali. In complesso si calcola di avere raccolto oltre 700 campioni diversi, per lo più in duplo o in triplo, risultato senza precedenti nella storia delle spedizioni scientifiche marine (ivi, p. IX)3.

Preferiamo le emozioni sportive della caccia sottomarina? — Dalle prime alle ultime pagine esse abbondano, interessantissime in sé e per lo “stile” con cui sono raccontate e rivissute. Pensate: una dozzina di campioni, che raggiungono i dieci, i venti, i trenta e passa metri di profondità (Raimondo Bucher è detentore del record mondiale d’immersione in apnea, avendo raggiunto i trentanove metri!)4, senza scafandri e senza batisfere, quasi sempre anche senza autorespiratori, con appena una pinza al naso e un vetro avanti agli occhi, e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, affondano, passeggiano, risalgono, nel tenebrore crescente perlustrano grotte e relitti, ne stanano gli abitatori, raccolgono alghe, pesci, molluschi e crostacei, affrontano bestioni feroci, o almeno temibili, come murene, squali e mante, non di rado quattro o cinque volte più grandi di loro, e, armati solo di pinne e di fragili fucili ad aria, ne spiano le mosse, ne evitano le manovre di attacco, li attaccano essi stessi, ne sostengono la lotta furibonda e la concludono issando a bordo, trafitti e vinti, bestioni, che alla comune dei mortali come noi mettono spavento anche solo visti in fotografia! E tutto raccontato come per scherzo, senza false modestie e senza le spacconerie comuni ai cacciatori, oggettivamente e insieme liricamente, come chi non ignora il rischio, né si reputa eroe dopo averlo affrontato, pago della bellezza intrinseca di un atto che sia insieme segno di vigoria e di precisione: dominio della materia, stile, giovinezza.

Alla lettura preferiamo vedere le cose coi nostri occhi, e quasi rivivere con la nostra esperienza le loro vicende? La documentazione illustrativa dei due volumi ce ne dà ampie possibilità. Sono tavole e tavole del più alto interesse, in bianco e nero la più parte, a colori non poche, scelta minima tra le 4.000 eseguite dalla spedizione, più che sufficienti per invogliarci ad andarle a vedere vive nel film, il quale, da parte sua, lungo com’è, non sfrutta la trentesima parte dei settantamila metri di pellicola girati. Ma assistendovi, impallidisce il ricordo di tutte le meraviglie che possiamo aver ammirato negli acquari di Napoli e di Monaco Principato. Tra essi e il film c’è la differenza che stacca la tristezza solitaria degli uccelli in gabbia dalla gioia del loro libero volteggiare nel cielo sconfinato e dallo sbaldore di che gli stessi uccelli riempiono i viali cittadini alle prime ombre del tramonto.

Con questo documentario l’Italia ha superato senza paragone tutte le sue precedenti riprese sottomarine. Cacciatori sottomarini (1943), di Avanzo, Di Napoli e Moncada, La pesca delle spugne (1949) di Zucchi, K. M. 618 (1951) di Roccardi, sul recupero dei relitti navali, al suo confronto sono poco più che tentativi di primitivi; sorpassati sono anche Avventura nel Mar Rosso (1952), dell’austriaco Hans Haas, e lo statunitense Il mare intorno a noi (1953); e gli stessi più recenti Sotto la pelle del mare, di Achille Bolla, La jungle des mers, Palais de corail, Les visiteurs d’épaves (1954), presentatici in visione privata a Venezia dallo stesso loro autore ingegner Dimitri Rebikoff, benché giràti a maggiori profondità e con l’ausilio del lampo elettronico, restano delle semplici approssimazioni rispetto al superbo spettacolo di ardire e di bellezza offertoci dal Quilici5. Insomma, se oggi la produzione italiana del documentario a colori e a lungo metraggio vede aperta avanti a sé la via del mercato internazionale, il merito è appunto di questo film, dopo il Magia Verde, regista lo stesso Gian Gaspare Napolitano, che ha accompagnato Sesto continente del commento colorito e brioso.

Fantasie e progetti

A questo punto, avendo indicato al lettore il film e i due volumi che l’affiancano, potremmo licenziarci con un augurale: «Ormai per te ti ciba!». Ma non vogliamo lasciarci sfuggire l’occasione che ci si presenta di avviarlo verso due ordini di considerazioni, che uno solo dei nostri due bravi autori introduce, e solo in parte.

Gianni Roghi, infatti, ricco delle più svariate esperienze offertegli dalla sua buona cultura letteraria e dagli sport di subacqueo, di sciatore e di rocciatore, di cui conosce tutti i segreti, scrive più da giornalista che da pensatore. Egli sa di aver sotto mano una tavolozza non sprovvista di colori e ne è, se non prodigo, generoso; si abbandona alla facile vena che in lui alimentano una felice fantasia buona salute e un carattere invidiabilmente giocondo. Cose e vicende lo interessano per se stesse, o, al più, per il pittoresco che può risultare dai loro rapporti di convenienza o di contrasto. Se qualche volta nella sua prosa affiorano problemi di pensiero, egli li risolve nello scherzoso, o addirittura nel frivolo, e non sempre di buon gusto6.

Anche il Quilici si dimostra scrittore di razza; meno colorito e meno smaliziato, forse, ma tutto nerbo e concretezza; si fa leggere volentieri anche quando appunta secco e frettoloso, diresti: schematico e sciatto; ma, a differenza del Roghi, ha un’idea in testa, e la propone e la difende come una tesi, che dà il titolo del suo volume e del film: Sesto continente, dovuto, pare, a Bruno Vailati. Europa, Asia, Africa, America e Oceania: sta bene; ma i cinque continenti non raggiungono, in estensione, la metà di quella dei mari e degli oceani. Perché l’uomo si ostina a passare la sua esistenza attaccato a quel poco di asciutto? E perché, quando è costretto ad avventurarsi nel mare, se ne tiene in superficie? — Perché — rispondiamo noi, non iniziati ai suoi entusiasmi, — immerso nell’acqua, l’uomo non potrebbe respirare; perché sotto i dieci e i venti metri la sua massa lo schiaccerebbe, e sotto i trenta e i quaranta, nel buio crescente, gli occhi cesserebbero di servirgli; infine, perché il mare è pieno di pescicani e d’altri animalacci, contro i quali l’uomo non può difendersi! — Ubbie! — ribatte il Quilici. – I mezzi della tecnica ormai gli danno la possibilità di vedere e di respirare sott’acqua, l’addestramento metodico ne piegherà l’organismo alle prestazioni più impensate; le malefatte dei mostri marini vanno relegate nel mondo delle favole e, per la parte di verità che possono riflettere, tutto fa supporre che l’uomo riuscirà a domare quanto resta di natura selvaggia sotto il pelo dell’acqua, com’è riuscito con gli animali e gli elementi, una volta padroni incontrollati delle terre emerse7.

La spedizione doveva fornire la prova palmare di questa teoria.

Spedizioni analoghe alla nostra ci avevano preceduto nei mari del mondo. C’era però uno scopo generale che faceva della nostra impresa «qualcosa di diverso». Avremmo compiuto un lavoro di estensione: avremmo eseguito, cioè, per un lunghissimo periodo di tempo immersioni subacquee prolungate, in località ed in condizioni diverse, facendo durante queste immersioni le cose più disparate. Il che sarebbe servito a dimostrare che si può lavorare sott’acqua come si lavora fuori dell’acqua; e che in un prossimo futuro le ricchezze di ogni genere, che il mare cela nel suo grembo, diverranno accessibili all’uomo, il quale potrà andarle direttamente a scoprire e a sfruttare nel mondo subacqueo, come se questo fosse un sesto continente, che all’improvviso si apre a tutti; che insomma è giunto il momento in cui bisogna abbandonare il comune concetto con cui si considera il mare, bisogna tentare di vincerlo, di conquistarlo veramente, penetrando nel suo regno e facendolo nostro. Solo allora ci accorgeremo che per secoli e secoli di esso si sono considerati soltanto gli aspetti secondari (p. 8). •

E difatti l’ha fornita.

Dodici uomini sono sott’acqua; chi fotografa, chi caccia, chi raccoglie madrepore, chi osserva un granchiolino, chi vaga con la macchina cinematografica, chi studia le mosse di un pescecane... È la spedizione, finalmente, al lavoro così come Vailati la immaginava, intenta a svolgere le sue varie attività sul fondo del mare come tanta altra gente fa nell’aria libera. Astraendomi per un momento dal lavoro individuale, secondo i particolari programmi di ciascun gruppo, osservo la cosa alla luce della nostra teoria sul Sesto continente, considerando le possibilità di lavoro che si offrono all’uomo entro quei confini, fuori dai suoi abituali, e penso che vorrei poter donare a chi giudica utopistiche le nostre idee l’immagine di questo pomeriggio: dodici esseri umani facilmente divenuti anfibi, tra cui due donne, a cinque, venti, otto, trenta, due, sedici metri di profondità, tranquillamente intenti ai più svariati lavori. L’immagine di un pomeriggio che sarà l’immagine di cento altri nostri pomeriggi e mattinate, di giorni e giorni di lavoro. Di lavoro nel Sesto continente (p. 79).
Dipingere, cacciare, raccogliere, cinematografare, osservare...: eccoci qui, anfibi al lavoro in questo nuovo mondo. Ci aggiriamo fluttuando sui suoi fondali, lungo le pareti coralline, tra i suoi abitanti, impariamo a conoscere i suoi deserti, i suoi abissi, le sue montagne e le sue giungle, i suoi lupi e i suoi agnelli. Ci stiamo abituando ogni giorno più a sottostare a leggi fisiche diverse, in un mondo a tre dimensioni, dove la legge di gravità risulta stranamente deformata, un mondo dove se si spacca un martello una parte cade e l’altra sale. Ci abituiamo a vivere orizzontalmente, ad usàre un linguaggio particolare, e ci accorgiamo che il filo stesso dei nostri pensieri si snoda diversamente, immersi come siamo in un perenne silenzio... Questa vita è sì diversa da quella «normale», ma in fondo il trapasso è facile, alla portata di chiunque voglia farlo. Immersi nel Sesto continente, abbiamo constatato in maniera palmare le sue possibilità di sfruttamento, le ricchezze che racchiude, che gli uomini possono conquistare: tutte le ipotesi, che ci hanno spinto a fare questa spedizione, hanno trovato conferma (p. 119).

È dunque lecito far progetti. Oggi la pesca è praticata in maniera poco produttiva, come poco produttivo era lo sfruttamento degli animali terrestri prima della “scoperta” della pastorizia? Ma giorno verrà che l’uomo potrà allevare i pesci come oggi si fa con le mandrie di bufali e nei pollami razionali; le alghe, ricche di idrati di carbonio, proteine, grassi e vitamine, nonché di quell’acido alginico che, filato, dà un tessuto resistente più del lino e della canapa, oggi si raccolgono solo se gettate dalla risacca? Che sarà quando l’uomo scenderà sott’acqua e vi eserciterà una vera e propria coltura sottomarina con trapianti e coltivazione, e inizierà un serio sfruttamento industriale della flora subacquea? Il discorso vale anche per i minerali: metano, petrolio, carbone, zolfo, e per le forze naturali del mare come generatrici di energia: turbine speciali, piazzate su un fondo ove si trovassero forti correnti marine, potrebbero produrre corrente elettrica, non diversamente da quanto avviene nei torrenti montani.

Prendiamo un’isola morta, povera e desolata come Dalhack Chebir, sulla quale ci troviamo ora, e vediamo come potrebbe cambiare aspetto ove si giungesse a sfruttare le risorse del Sesto continente in questa particolare zona. Gli uomini-rana, ai quali sarebbero affidate le prime ricerche, troverebbero sgorganti dal fondo, come sono apparse a noi, numerose polle di acqua dolce, e così sarebbe risolto uno dei problemi più importanti. Altri uomini subacquei, specialisti nei vari rami, dirigenti e operai, lavorando nel fondo antistante l’isola, potrebbero cominciare a coltivare in ordinati campi quelle alghe che qualche indigeno usa per sfamare i suoi magri armenti, ed ecco che si avrebbe di che mantenere gli ovini, cibo prezioso per gli abitanti dell’isola. L’attenta osservazione dei pesci e delle loro abitudini aumenta del mille per dieci i frutti della pesca. Altri tecnici, invogliati dalle scoperte minerarie, vengono all’isola, che, sfruttando la corrente di Nocra, ha ormai l’elettricità. Ecco, in pochi anni un gruppo di uomini con le pinne ha modificato l’aspetto di un’isola selvaggia e arida.

Scorgo sul volto di qualche lettore un mal represso risolino...

* * *

Ma noi non ridiamo affatto, e, se sorridiamo, non è per dichiararci scettici di tanto rosee speranze. Da qualche decennio ne abbiamo viste tante che, ormai, nessuna cosa ci sembra assurda. Credevamo che per far camminare un carro occorressero i cavalli e ci hanno dimostrato che se ne poteva fare a meno; che solo gli animali potessero gridare e solo l’uomo parlare e cantare, e invece abbiamo sentito parlare e cantare il legno, il ferro, i dischi, i fili e i nastri; che i quadri, le statue e i palazzi non potessero muoversi, e il cinema ha dato vita alle cose più impensate; che, per dialogare, gli uomini si dovessero mantenere entro la portata di voce e di vista, e invece la radio e la televisione hanno abolito ogni distanza; che solo gli uccelli potessero volare e abbiamo avuto gli aeroplani; che questi non potessero volare senz’ali e senz’elica, e sono sbucati fuori i reattori; che non si potesse toccare il cuore ad un uomo senza ucciderlo ed oggi correntemente vi fanno le operazioni dentro, e poco manca che non gliene aggiustino uno di ricambio; che ogni animale dovesse avere un padre e una madre e ce ne hanno dati di senza padre e con due madri; che potevano tentare la via dei poli solamente arditissimi desiderosi d’immortalarsi, e da qualche mese ci passano viaggiatori in abiti estivi e rispettabili signore sferruzzando un golfino; che la materia fosse inerte e l’abbiamo piegata a spallare le città e far filare mostruosi sottomarini con la velocità dei rapidi... Non prendevamo sul serio le fantasie di Giulio Verne e ormai da qualche anno, questi matti di uomini si stanno preparando a villeggiare sulla luna... Perché ridere all’ipotesi dell’homo subaqueus?

Gli uomini del ’700 erano, per ingenuo stupore, ancora molto vicini ai mitici argonauti, se il Parini e il Monti sentirono sciogliersi la vena poetica per il signor di Mongolfier, ardito tanto da ...occupar dei fulmini – L’inviolato impero, come l’aveva sciolta il giovinetto Orfeo, Quando Giason dal Pelio – Spinse nel mar gli abeti – E primo corse a fendere – Co’ remi in seno a Teti; né tanto dissimili n’erano ancora quelli dell’800, se Giosue Carducci non dubitò d’interpretarne l’incredula meraviglia inneggiando alla locomotiva e vedendo in essa addirittura un pericolo mortale per il Geova dei sacerdoti, come il Monti aveva veduto nella mongolfiera un assalto al Giove dell’Olimpo... Noi del ’900 siamo diventati refrattari allo stupore. Continuiamo a elencare, sempre più fitti, tant9 che non si sa che cosa ne lasceremo ai posteri, i successi straordinari, che cominciano con: «È la prima volta che l’uomo...» e non ce ne commoviamo molto. In questi ultimi decenni è stata la prima volta che la terrà è entrata in comunicazione con gli astri (il radar), la prima volta che l’uomo vince la velocità del suono, che sente la musica delle stelle (raggi cosmici rivelati e amplificati), che è salito sul tetto del mondo e si è sprofondato a mille metri nel mare, che ha fotografato la vita segreta delle cellule e delle molecole, ha scisso l’atomo, ha prodotto «elementi» del tutto nuovi... Saremo anche i primi a coltivare poderi sottomarini con tanto di «stalle» e di «pollai»? I primati raggiunti dai componenti della spedizione Formica 1953: i primi a udire il linguaggio dei pesci (pp. 192-194), i primi a vincere il più grande animale marino nel proprio ambiente (p. 216), i primi a scoccare milioni di lumen a cinquantatre metri di profondità e a suscitarvi e fotografarvi colori che «nella storia del mondo, nel fluire dei secoli, nessuno aveva mai visto» (p. 222), con altri accenti, ma con non diverso afflato lirico, ci ripetono lo zanelliano invito: T’avanza, t’avanza – Divino straniero: – Conosci la terra – Che i fati ti diero! Guarda, indaga ed osa: ché, per la massa sterminata di meraviglie che ancora ...rinserra – È giovin la terra!

* * *

Ma siano pure fantasia questi progetti, e i fatti riescano a dimostrare che l’uomo non potrà mai avventurarsi nel mare in modo molto diverso dall’odierno, il film e i libri sul Sesto Continente, restano sempre, per spettatori e lettori provvisti di un minimo di sensibilità spirituale, un richiamo felicissimo ad una realtà, che spiega e partecipa tanta bellezza del creato. Riandiamo qualcuna tra le più scintillanti pagine del Roghi:

Mi trovavo per la prima volta a tu per tu con la famosa barriera di coralli: ma devo confessare che m’appariva cosa abbastanza misera... Ma quando mi decisi a scendere fino alla base del gradino... il muro formicolava: centinaia, migliaia di creature circolavano, strisciavano, zampettavano, uscivano ed entravano nei buchi, spuntavano e si ritraevano, pareva che gesticolassero. Era una cosa meravigliosa e frenetica. La piccolissima barriera di corallo era viva, vivente, una inconcepibile moltitudine di pesciolini iridati dalle forme più strane giocavano a rimpiattino, sembrava che tutta l’acqua si muovesse in alto e in basso ricolma di pesci, e non già a branchi, ma ciascuno per suo conto, a fare i fatti propri, a cercare il suo mangiare, la sua tana, il suo amore, il suo nido, il suo scampo. Era meraviglioso stare a guardare, con la faccia incollata sulla boscaglia del muro: scompariva qualsiasi ansia, la paura si era sommersa nello stupore, nell’entusiasmo. Che vita inimmaginabile su questo pianeta! (p. 11).
Entro e sopra e sotto la barriera madreporica, incontrammo una quantità di specie nuove di pesci. I pesci di passo – sauri, dentici, carangi, tinnidi, squali, barracuda, eccetera – più o meno erano i soliti, ma straordinaria appariva la ricchezza di pesci corallini: scaridi laccati di verde e scarlatto col becco giallo, pseudoscari a squame rosse verdi e gialle con l’occhio tondo, labriformi dalle pinne esili e puntute e dai colori pazzi, macchiettati col muso a strisce longitudinali, labriformi a bande d’arcobaleno, labriformi ancora a tinta unita con sfumature indefinibili; e chetodonti, le creature tropicali più fantastiche; e serrani e percoidi in ogni buco, e scorpene volanti, pesci istrice e pesci palla, pesci cofano e murene, pesci balestra, diagramma, pesci chirurghi ed olocanti e cento e cento altri, lunghi e corti, affusolati e tozzi, corazzati e nudi, vagabondi e sedentari, era una popolazione rigogliosa e democratica, di cui ogni individuo badava ai fatti propri senza recar danno al prossimo, pascendosi per lo più, qualche predone intemerato escluso, di quanto elargiva a piene mani la scogliera stessa. La quale scogliera, infatti, a studiarla da vicino, era un brulicar continuo di mille animaletti: granchiolini, pesciolini microscopici, ragnetti, molluschi e conchigliole, biscioline... e fiori vivi di anemoni, spugne di infinite specie, coroncine di madrepore sempre nuove, sempre diverse, spirografi leggiadrissime, tenui cannelli con il fiore vaporoso in cima, che appena a sfiorarlo si ritraeva repentino... C’era da passare, là sotto, mille ore di stupefazione (pp. 125-126).
Il mare è nero, ma intorno alla barca, dove il legno e dove i remi toccano l’acqua, è il miracolo della fosforescenza. Gigi solleva i remi e ne piove una luce abbagliante, al neon; io immergo la mano e la ritraggo grondante di luce, mi rimane la luce sotto le unghie. Siamo entrati nel banco fosforescente del plancton. I microrganismi, appena urtati, danno una scarica luminosa, poi si spengono tornando invisibili; miliardi di miliardi. La prua affonda e avanza adagio nella zuppa al neon: ora, procedendo appena più forte, potremmo vederci negli occhi. Le isole, gli scogli lontani e vicini sono bordati di luce, illuminati fiocamente dal basso, scogli lunari, di una terra fantasma. Il mare ha dei lampi profondi: sono pesci che passano e accendono il plancton. Ne passan di piccoli a schiere con un barbaglio disteso e tremulo, ma di tratto in tratto s’incrociano comete e meteore di barracuda o di squali, fors’anche di sgombri. E dei tonfi, nei canali, nelle lagune, di pesci balzati fuor d’acqua, di mante giganti. Il gran mare, di notte, si muove. La barca sciacqua nella luce, coperta fino sul bordo di lucciole, che a poco a poco o all’istante si spengono, mentre altre infinite risplendono. Non soltanto il cielo è coperto di stelle: anche noi, anche noi. Un’aguglia volante parte di lontano saettando nell’aria, la sua coda batte frenetica l’acqua e produce una scia che non è cometa, ma qualcosa di inconcepibilmente più vivo, un serpente infocato che corre sul mare, una folgore che si disegna fra due poli invisibili. E il polo estremo siamo noi, ché l’aguglia picchia sul fianco della barca e si salva roteando in una girandola di fuochi artificiali. Splendore, splendore... Scendiamo, moviamo i piedi nel metallo fuso... Ci gettiamo acqua sul corpo, sui capelli. Siamo quattro meravigliosi fantasmi, in quella notte colma di stelle, quattro poveri ragazzi con la testa piena di lucciole (pp. 168-169).

* * *

Solo di lucciole? E perché non anche di alti pensieri, che siano preludio alla preghiera? Come non scorgere, infatti, in tanta bellezza del creato la bellezza del suo creatore, e non sentire nel silenzio rarefatto dell’anima lo stupore che genera la più alta pietà, specialmente considerando che quanto abbiamo letto e visto è solo una minima parte di quanto essi hanno visto, e che quanto essi hanno esplorato non è la milionesima parte del Mar Rosso, e che il Mar Rosso non è la millesima parte dei mari e degli oceani della terra? Come siffatti spettacoli e siffatti libri si possono chiudere se non immergendosi nella più alta contemplazione?

Per parte nostra, francamente, vedendo Sesto Continente nella più mondana sala del Lido, e Il deserto che vive in una profanissima sala di Roma, il cinema per qualche ora ci è diventato chiesa, tanto chiaro vi vedevamo trasparire dallo schermo il volto di Dio, ed ardimmo pensare che se Francesco d’Assisi tornasse oggi in terra ad intonare il suo Cantico delle creature, non dimenticherebbe, tra frate sole e frate focu, il nuovo frate cinema, non meno bello et jucundo di essi, e l’inviterebbe a laudare et servire anche lui cum grande humilitate il Signore; ed oggi, letta la nuova pagina, appena aperta, del grande libro del creato, sentiamo che anche un altro cantico delle creature, intonato duemila anni prima di san Francesco, grazie ai ritrovati della scienza e all’ardire degli uomini di oggi, può essere intonato, dilatandone oltre ogni immaginazione primitiva la portata di religiosa riconoscenza. Se è vero che, per i tanti mali causati al mondo odierno dalla scienza male usata, non hanno sempre tutti i torti i laudatores temporis acti, beata dunque si dica la generazione che può cantare come nessun’altra: Mari e fiumi benedite il Signore! Pesci e animali tutti che popolate le acque, benedite, benedite il Signore! (DAN. 3, 69).

 

1 Folco QUILICI, Avventura nel sesto continente. Roma, Gherardo Casini, 1954, in-16º, pp. 262. Con amplissima documentazione fotografica in nero e a colori di Giorgio RAVELLI e dell’autore. – Gianni ROGHI e Francesco BASCHIERI, Dahlak. Milano, Garzanti, 1954, in-8º, pp. 282. Con 11 tavv. a colori, 40 in nero e 2 cartine f. t.

2 Essi sono: dott. Bruno Vailati, organizzatore, capo spedizione e collaboratore sportivo; dott. Francesco Baschieri Salvadori, dirigente scientifico; ten. Raimondo Bucher, dirigente sportivo; Enza Bucher, collaboratrice sportiva; dott. Alberto Grazioli, medico chirurgo; dott. Gianni Roghi, collaboratore scientifico e capo ufficio stampa; dott. Luigi Stuart Tovini, collaboratore scientifico; dott. Silverio Zecca, collaboratore sportivo e amministratore. Inoltre: Priscilla Hasting, collaboratrice scientifica, disegnatrice; Folco Quilici, regista del documentario sulla spedizione; Masino Manunza, operatore cinematografico; Giorgio Ravelli, realizzatore delle apparecchiature fotografiche e cinematografiche subacquee, fotografo.

3 Lo stesso G. Roghi nota che, all’uscita del suo volume, «gli studi sul materiale biologico recato, studi ai quali sono attualmente impegnati i maggiori specialisti italiani e stranieri, ne hanno potuto riconoscere una minima parte. Per l’interesse e la novità del medesimo si potranno dunque avere dati precisi sul risultato totale dell’impresa non prima di due anni» (p. X). Nell’attesa, chi volesse saperne qualcosa, legga l’Appendice di F. BASCHIERI (ivi, pp. 231 ss.), la quale, mantenendosi sulle generali per quanto riguarda notizie strettamente scientifiche, si dilunga sugli aspetti del tema che offrono maggiore interesse a lettori di media cultura.

4 Si parla di record regolarmente omologati, ché c’è chi riferisce di pescatori di spugne e di perle del Mediterraneo e in Asia, capaci di raggiungere, aiutati nella discesa da una pietra, gli ottanta metri, restando sott’acqua fino a settanta secondi. Il record di Raimondo Bucher fu stabilito nel mare di Capri il 1° novembre 1952, il campione rimanendovi in immersione un minuto e diciassette secondi (cfr F. QUILICI, op. cit., pp. 20-24).

5 Non vanno dimenticati i due film Il mondo silenzioso (1946) ed Epaves (1947), del comandante J. Y. Cousteau, che sono i primi documentari professionali sul mondo subacqueo. Ad essi si riferisce il volume dello stesso COUSTEAU: Il mondo silenzioso (Bompiani 1954, pp. 232).

6 «... ottimo per il modo con cui è scritto..., con una vivacità e chiarezza che va additata come esempio... Nessuno tra i libri francesi, inglesi e tedeschi di pesca subacquea apparsi in questi anni può competere con questo per la bellezza e l’esattezza delle descrizioni, per la sincera e modesta serenità della trattazione...»: cosi Sapere (1954, nn. 465-466, p. 196) loda il lavoro del Roghi, e termina augurandosi «che vada per le mani di molti giovani, ai quali le pagine del libro riveleranno le gioie pure e profonde che la natura riserva all’attento osservatore». Noi, per fare incondizionatamente nostro l’augurio della rivista, ci aspettiamo che il Roghi, in una seconda edizione, ne espunga alcune ombre: tali le poche frivolezze, di cui nel testo; un certo naturismo notato al Roghi dallo stesso Tesfanchiél (p. 172) con un’osservazione che certo non è un complimento per un cattolico; una illustrazione, che non sappiamo quanti giovani potranno guardare con occhio sereno, e finalmente un suo frequente intercalare (pp. 39, 50, 135, 143 e 210), che, nel parlare, e soprattutto nello scrivere, oltre che col secondo comandamento di Dio, non s’accorda con la buona educazione. A questo proposito gli raccomanderemmo – e per un suo sgarro (p. 226) anche al Quilici – l’uso del meno irriverente e non meno efficace «accipicchia» di Priscilla Hasting.
Tra i libri cui si riferisce il recensore di Sapere rileviamo Palmes et masque, di Devo KOUBI (Paris, Librairie Académique Perrin, 1954, pp. 220. Con 30 tavv. f. t. Fr. 780). L’autore è uno dei primi che abbia affrontato i rischi e gustato le sodisfazioni della pesca subacquea, dato che fin dal 1938 i littorali di Oran, di Algeri, delle Baleari, della Tunisia e della Libia sono stati testimoni delle sue prodezze di tuffatore, di cacciatore e di fotografo. Nel suo volume, che riferisce appunto le sue recenti esperienze in Algeria, non mancano pagine interessanti e aneddoti pittoreschi. Nell’insieme però si direbbe un modello di quella letteratura mediocre, che per sodisfare la più superficiale curiosità popolare e a scopo di lucro, ammannisce descrizioni impressionistiche, più ricche di aggettivi che di sostanza, e inoltre, dato il genere di sport che tratta, piuttosto greve di naturismo paganeggiante. Le sue illustrazioni, ordinarie e monotone, alcune invereconde, non superano il valore del testo.

7 Tra le leggende sfatate la più clamorosa è quella sui pescicani, dimostratisi molto meno temibili e più vigliacchi di quanto l’opinione corrente li consideri. Tramontano così le fantasie orripilanti introdotte dal Salgari ed amplificate dagli odierni fumettisti suoi epigoni, ed è per sempre smascherata l’idiozia dei corpo a corpo tra uomini e pescicani, che, dopo l’illustrissimo esempio di Tabù; (1931), di MURNAU, continuano ad infiorare le gesta dei vari Tarzan e dei Jim, che l’America, ad oltraggio della nostra intelligenza, ci propina. A questo proposito vedi in particolare: F. QUILICI, op. cit., p. 197 u., e G. ROGHI, op. cit., p. 69 ss.

In argomento

Cinema-arte

n. 2808, vol. II (1967), pp. 573-576
n. 2672, vol. IV (1961), pp. 165-169
n. 2667, vol. III (1961), pp. 306-311
n. 2567, vol. II (1957), pp. 504-515, 619-627
n. 2559, vol. I (1957), pp. 288-302
n. 2562, vol. I (1957), pp. 610-619