Articolo estratto dal volume II del 1963 pubblicato su Google Libri.
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Nei cinque anni che avemmo la sorte di dirigere la congregazione mariana Prima Primaria (1945-1949), andammo raccogliendo notizie e dati riguardanti le sue origini. La ricerca, già frammentaria, quale la permettevano le rare horae subcesivae dell’incarico, s’interruppe quando passammo alla Civiltà Cattolica. Oggi, nel quarto centenario delle prime origini di quella che, nel 1584, doveva diventare omnium congregationum in toto orbe diffusarum Mater et Caput1 (1563-1963), ci risolviamo a stralciare alcuni risultati riguardanti le circostanze ambientali in cui la feconda istituzione germinò e si sviluppò, nonché alcune vicende di luoghi e di cose che ne furono testimoni, o che oggi ne conservano le vestigia. E confidiamo che questo nostro grato contributo alle celebrazioni secolari valga, insieme, a rilevare alcuni aspetti dello spirito nativo delle congregazioni mariane, forse non sempre tenuti presenti nei giudizi e nelle polemiche di cui queste associazioni di fedeli sono state argomento negli ultimi decenni, come pure a richiamare una devota attenzione su quel che rimane di un sacro edificio, che certamente non è l’ultimo tra gli innumerevoli che la Città Eterna raccoglie cari alla pietà cristiana2.
Fanciulli o uomini?
Per cominciare: che età avevano i primi congregati che il gesuita belga Giovanni Leunis, in una sera dei primi mesi del 1563, terminate le lezioni, raccolse intorno ad un altarino nella prima «congregatione»? L’iscrizione – poi vedremo quanto poco esatta – che oggi si legge nella chiesa di Sant’Ignazio sopra la porta che immette nella scala di accesso alla Prima Primaria3, parlando di pueruli (fanciullini), suggerisce l’idea caramellosa di un giardino d’infanzia, o giù di lì. Ma l’epigrafista deve aver equivocato sulla natura dell’infimetta affidata al Leunis. Questa, infatti, era sì, la prima ed infima delle cinque classi di Grammatica, vale a dire del primo ed infimo dei sei corsi che in quel torno di tempo si tenevano nel Collegio Romano4; tuttavia, «vi si ammettevano quelli che sapevano leggere e scrivere, e recitare a memoria il Donato»5. Dunque, qualcosa più di pueruli. Diciamo pure ragazzetti, se non anche ragazzi, e, in casi eccezionali, addirittura uomini, come per san Camillo de Lellis, nel 1582 ammesso nell’infimetta all’età di trentadue anni, ragion per cui i condiscepoli lo canzonavano cantandogli: «Tarde venisti!»6.
Ma, poi, chi ha mai detto che il fervoroso maestro abbia radunato soltanto i suoi alunni? Anzi, il primo documento che possediamo di quella «congregatione», precisa che si trattò «di alcuni scholari forastieri delle sei classi dalla rethorica in giò»7, corrispondenti più o meno a quello che poi fu detto ginnasio; dunque ragazzi, anche sui tredici-quattordici anni. E un’altra lettera, dell’anno seguente8, pur ricordando che i circa settanta, che all’inizio dettero il nome, fere omnes (quasi tutti: perciò non tutti) erano pueri (e non pueruli), dipoi, informando sul loro programma di vita, parla di comunione mensile, prassi, a quei tempi, non permessa a pueri; quindi precisa che i congregati erano inferiorum praesertim classium, così permettendoci di inferire che non vi mancassero giovani e giovanotti delle classi superiori.
Del resto, un’idea della differenza di età che dovette esserci tra i congregati negli anni delle origini può desumersi da una notizia fornita dal Giaconio9, il quale, nella vita di Sisto V, attribuisce a Mariano Perbenedetti, Agostino Valerio ed Ottavio Bandini il merito di aver fondata la Congregazione della S.ma Annunciata. Ora, se vogliamo dare un senso accettabile all’affermazione, manifestamente enfatica, bisognerà supporre che i tre futuri cardinali furono tra i primi, o primissimi, membri di essa. Ma il Perbenedetti era nato nel 1540; dunque, nel 1563 doveva avere ventitre anni, età conveniente per uno che era entrato nel Collegio Romano già chierico e canonico. Il Valerio era nato nel 1530; già professore di filosofia morale a Venezia fino al 1558, nel 1563 aveva trentatre anni, e trentacinque quando lasciò Roma (1565), destinato da Pio IV alla sede vescovile di Verona. Del Bandini non conosciamo l’anno di nascita; però il Moroni10 ci assicura che, quindicenne, meravigliò tutta Roma con un bellissimo discorso funebre in lode di Cosimo I de’ Medici; supponendo che l’abbia declamato non molto dopo la morte del granduca, avvenuta nell’agosto del 1564, nel 1563 egli doveva essere sui tredici-quattordici anni11. A conferma scrive il Sacchini che, nel 1569, sei anni dopo la prima adunanza del Leunis, essendosi moltiplicato il numero dei congregati, bisognò dividere fa congregazione in due sezioni: una per i settanta studenti che superavano i diciotto anni, e l’altra per i trenta che erano tra i dodici e i diciassette12, solo i primi costituendo la «Prima Primaria».
Né poteva essere altrimenti; perché, notoriamente, l’iniziativa del Leunis rientrava nel metodo di lavoro pastorale già usuale nella giovane Compagnia di Gesù, fondato sui due criteri della scelta dei soggetti e dell’associazione stabile degli stessi. Col primo si proporzionavano ideali e formazione ascetica ed apostolica alle possibilità, sia naturali sia soprannaturali, via via crescenti, dei singoli, sì da ottenere da essi il massimo possibile, e da rifluire quindi sui meno dotati e volenterosi tramite il dinamismo trascinatore di pochi; col secondo si sfruttavano vincoli comunitari e stabili – oggi si direbbe di squadra, di équipe, di cellula... – in funzione sia formativa interiore, e sia di emulazione nell’azione esterna caritativa ed apostolica13. Un metodo, dunque, di azione pastorale, che, pur adattandosi bene anche a bambini ed a ragazzi, altrettanto bene e meglio conveniva a giovani ed adulti, come poi quattro secoli di attività delle congregazioni mariane tra fedeli di tutte le età dimostreranno, a cominciare da quelle che lo stesso Leunis, dopo il 1563, fonderà a Parigi (1565), a Billon (1569), a Torino (1581)...
Chierici o laici?
La circostanza che la Prima Primaria sia sorta nel Collegio Romano non induca a credere che i primi congregati siano stati convittori interni, nel senso odierno del termine, oppure tutti ecclesiastici. È risaputo infatti che sant’Ignazio di Loyola lo immaginò e volle come collegio misto, vale a dire aperto tanto agli studenti interni dell’Ordine, quanto agli esterni; e che, di fatto, fin dai primi anni, tale fu l’afflusso che vi si verificò di esterni da scatenare irose reazioni da parte dei maestri romani, rimasti quasi privi di alunni, e da rendere semideserte le aule della vicina Sapienza14. Per il 1563, in particolare, abbiamo, dalla già ricordata lettera del Raggio, che sul totale di 717 alunni del Collegio, contro 151 interni (gesuiti), tutti gli altri erano «scholari forastieri» tra i quali ben 436 «delle sei classi dalla rethorica in giò»15. Orbene, soltanto tra questi «forastieri» nacque e si sviluppò la congregazione, dato che con essa il Leunis non intendeva altro che portarli ad emulare l’eccellente formazione interiore e lo spirito apostolico che, nelle forme tipiche della loro vita religiosa, già animavano i giovani studenti gesuiti.
Non può tuttavia escludersi, anzi è assai probabile, che alcuni, o molti, dei «forastieri» fossero ecclesiastici, cioè, giovani avviati al sacerdozio, o già sacerdoti, come appunto il Perbenedetti, di cui sopra. Siamo, però, d’opinione che, presto, i congregati chierici del Collegio Romano si siano ridotti al minimo, perché, dopo appena qualche anno, i migliori alunni chierici si adunarono in congregazioni interne ai propri «collegi»; per esempio, del Collegio Germanico, che già nel 1566 contò tre congregazioni, e cinque nel 1567; del Seminario Romano, che ne contò due di seminaristi e due di nobili convittori; e del Collegio Inglese, dove una congregazione cominciò a funzionare il 15 agosto 158116. Ma, chierici o laici che fossero, i congregati erano tutt’altro che piissimi ed anemici giovanetti. Riporta, infatti, un diarista che
«lunedì dopo la quinquagesima, mentre i giovani della congregazione del Collegio Romano vennero per recitare il dramma italiano del Figliol Prodigo nella sala del Germanico, i convittori di questo, piccati, entrano in palco nel medesimo tempo anch’essi a recitare il San Vito e Modesto. Or mentre si contrasta del luogo, il dramma finto fu per finire in vera e brutta tragedia, avendo i contendenti snudate le spade prese non si sa dove. Se non che san Francesco Borgia, che per decorare gli studi, e stimolare i giovani, era uno degli spettatori, sorse a sedar lo scompiglio17.
E non esagerava una lettera del tempo scrivendo:
«Alcuni, per esser’ in quelle (congregazioni) ricevuti fanno gran cose; e benché siano di nature terribili e fastidiose, si guardano di dar’ una minima occasione di essere stimati indegni di quel’ luogo; e se talora si tratta di cacciarne alcuno per qualche suo mancamento, lo sentono di maniera che si gettan per terra con lagrime dimandando perdono, et offerendosi pronti ad emendarsi, e far’ qualsivoglia penitentia»18.
Le opere e l’ambiente che li formarono
Evidentemente i focosi giovanotti avevano bisogno di essere – più che repressi e spenti – indirizzati a volgere ed applicare verso nobili e meritorie mete le loro esuberanti energie. Ed a ciò servirono in primo luogo le pratiche di pietà, intensificate e spontanee, oltre quelle ordinarie ai fedeli comuni del tempo. Di qui il loro convenire ogni giorno «in una classe di quelle, dove è un’altare assai bene ornato, et ivi per un pezzo fanno oratione, dopoi uno legge per un’altra pezzo alcun libro devoto; et ogni domeneca et festa vi cantano il vespro con molta devotione»19.
A queste pratiche di pietà seguì l’esercizio assiduo di quelle opere di misericordia, che erano insieme allenamento di mortificazione personale e servizio «sociale», quale i tempi lo consentivano; come: servire i poveri che si stipavano nella vicina chiesetta della Madonna della Strada ed altrove20, visitare i carcerati, recare soccorso agli ammalati in quelle sentine di sudiciume e di abbrutimento che erano gli ospedali del tempo. Chi oggi ne legge la descrizione, sempre che gli regga lo stomaco, può bene immaginare il grado di abnegazione che richiedevano, e giudicare qual eccellente rodaggio ascetico ed apostolico costituissero21. Dio volesse che anche oggi, in tante opere di formazione cristiana, si puntasse più sulla soda pietà che sui divertimenti, e che il pur necessario corredo dottrinale venisse corroborato da quella sintesi del cristianesimo che è ritrovare e servire Gesù Cristo nei nostri fratelli!
* * *
Ma riteniamo che un impulso decisivo a formarsi nella pietà più soda e ad impegnarsi senza mezzi termini nella vita ascetica ed apostolica, i primi congregati lo ricevettero più che altro dall’alto grado di fervore religioso in cui vivevano immersi, una volta posti a contatto con i loro sorprendenti «preti riformati» e, diciamo così, dalla stessa aria nuova e cattolica che l’avventurosa impresa del Collegio Romano, allora nel suo pieno svolgimento, faceva loro respirare a pieni polmoni.
Infatti, da una quindicina d’anni stavano succedendo eventi ben straordinari nel piccolo quadrilatero romano che andava dalla Via Lata alla Minerva e dall’Aguglia di San Mauto alla chiesetta degli Astalli! Già il cartello, che il 18 febbraio 1551 era stato appeso su di un portoncino di una casetta ai piedi del Campidoglio e, nel settembre dello stesso anno, su quello di un’altra casetta dietro Santo Stefano del Cacco: «Scuola di Grammatica, d’Umanità e di Dottrina Cristiana, gratis» aveva, come abbiamo già ricordato, convogliato ad un assalto armato i maestri di Roma. Subito dopo vennero le solenni aperture d’anno scolastico, celebrate nelle chiese viciniori – Sant’Eustachio, Santa Maria della Strada, il Pantheon... –, un po’ prediche, un po’ accademie e un po’ tornei, in cui si esibivano, per tre, cinque e fin otto giorni, maestri e scolari, in tours de force latini greci ed ebraici, nonché di drammi sacri, che davano il via a quello che poi doveva vigoreggiare per più di due secoli come teatro gesuitico, con gran concorso di porpore cardinalizie, di piume velluti e spade cavalieresche e di merletti di dame... Poi venne la novità della solenne distribuzione di premi ai più meritevoli – libri elegantemente stampati e rilegati, cose ancora rare e preziose in quei tempi – eseguita nel 1564 da ben sette cardinali22, poi ogni anno ripetuta in grandiosi apparati scenografici...
Intanto c’erano stati gli intermezzi dei due traslochi. Il primo dalla casa Frangipani al palazzo Salviati, durante la piena del Tevere nel settembre 1557; l’altro, tre anni dopo, nel maggio 1560, dal palazzo Salviati alle casettucce presso l’Aguglia di San Mauto, donate dalla marchesa della Tolfa... Allora, gli scolari poterono edificarsi vedendo tutti i loro illustri maestri, reduci dai tornei linguistici, filosofici, esegetici e teologici, per due volte farsi facchini, e guazzare nell’acqua fangosa od affondare nella polvere delle stradette non ancora selciate, carichi delle loro masserizie domestiche e scolastiche, trasportate «senza l’aiuto di alcuno esterno»; quindi videro i «fratelli» gesuiti, sempre senza l’aiuto di alcuno esterno, improvvisarsi architetti, muratori, falegnami e fabbri, ed allestire in pochi giorni una sede scolastica meno disagiata, quindi portare a termine in tre anni la costruzione della chiesa del Collegio.
Passati siffatti spettacoli, diciamo pure, straordinari, restava sotto gli occhi degli alunni quello della vita di ogni giorno condotta dai loro maestri: uomini celebri per nascita, per opere e per dottrina, come l’Olave, il Frusio, il Polanco, il Ledesma, il Mariana, il Toledo, il Clavio, il Perpignano..., vivere serenamente nella povertà più schietta, e, diciamo pure, qualche volta nella miseria. Sono note infatti le gravi difficoltà economiche che il Collegio Romano dové attraversare nei primi trent’anni, nonostante i ripetuti donativi dei Papi e le elemosine dei benefattori, a cominciare da quella generosissima del Borgia fino a quelle sollecitate un po’ dappertutto dal generale Lafnez; ché troppi erano gli oneri degli affitti, delle compere, dei lavori di adattamento e di costruzione, e soprattutto del mantenimento dei circa duecento gesuiti, quasi tutti studenti provvisti di robusto appetito; oneri che raggiunsero il fondo nel 1574, quando i debiti toccarono i 21.846 scudi, con ben 1.347 scudi di interessi l’anno.
Che meraviglia se il vitto era scarso, se nelle scuole gli alunni stavano pigiati gli uni sugli altri, se nelle canicole estive e nei rigori invernali i malanni fiaccavano la resistenza di molti?23. Un anonimo delle origini, riferendo di una visita di Gregorio XIII (luglio 1579), scrive: «Vidde il Papa con i suoi propri occhi lo stato miserabile delle case, nelle quali abitavamo, e molto ci compatì». Lo stesso Gregorio XIII, non sappiamo se in quella stessa visita o in un’altra, ebbe ulteriori prove di quella situazione eroica: «Un dì, mentre stava il P. Cristoforo Clavio con la penna sopra questa grande opera (la riforma del calendario), Sua Santità domandollo come avesse buona stanza da abitare per suo comodo, e pei suoi studi. Buona, ottima, rispose il Clavio: se non che son costretto a trasportare il mio letto or da questa or da quell’altra stanza, acciocché quando piove di notte non mi grondi acqua sopra il letto»24. Il p. Mariana, che vi insegnò nel tempo del Leunis (1561-1563), molti anni dopo scriveva: «A dir il vero si mangiava proprio pochino in quei giorni!»25; ed anche il nostro Leunis, sotto questo aspetto non poté conservarne un gradito ricordo, se nel 1570, preso da dolori, non si sa se reumatici o di sciatica o di tubercolosi ossea, recandosi in quel di Padova per i fanghi, li attribuì all’umidità goduta senza risparmio nell’infimetta del Collegio Romano26.
Sì eroica povertà evangelica era proprio quel che ci voleva per spingere i giovani umanamente e spiritualmente più dotati ad emulare le imprese dei loro maestri. Sapere che i padri, nonostante le loro ristrettezze, continuavano a darsi senza misura e senza chiedere loro un baiocco, non poteva non edificarli, e li disponeva ad accettarne le cure e gli indirizzi, manifestamente dettati dal più puro interesse spirituale e soprannaturale. Fu così che, come trascinati da un entusiasmo comune, i primi congregati realizzarono in sé una felice sintesi di uomini del loro mondo e del loro tempo, umanisticamente sensibilizzati e formati, ed insieme di cristiani dal respiro cattolico, aperti gli occhi sullo stato critico della Chiesa e caldo l’animo di spirito di conquista.
Sano umanesimo
La salutare opera di scotimento umanistico prodotta dal Collegio Romano nella culturalmente torpida Roma del cinquecento non si esauriva davvero nelle manifestazioni pubbliche – come le inaugurazioni, i certami letterari, le premiazioni e le recite –, che pur assolvevano ad una loro funzione di richiamo. In realtà la fama che di esso si diffuse nella Città e nel mondo poggiava su due realtà – quel che vi si insegnava, ed il metodo – che poco o nulla avevano che fare con l’esibizionismo del tempo.
Quel che vi si insegnava. Iniziatosi nel 1551 come Collegium trilingue, presto, al latino al greco ed all’ebraico si aggiunse anche l’arabo; s’insegnarono quindi tutte le discipline delle Arti: logica, fisica, etica, matematica ed astronomia, metafisica; e della Teologia: Sacra Scrittura, teologia scolastica, controversie, teologia morale. E dopo appena cinque anni, nel 1556, diventata Università, cominciava a conferire i gradi accademici come quelle celeberrime di Parigi e di Lovanio, di Salamanca e di Alcalà...
Come s’insegnava. Infatti, sant’Ignazio ed i suoi compagni, che c’erano passati e vi si erano formati, vollero che nel Collegio Romano si adottasse quanto di meglio avevano trovato e sperimentato appunto in quelle Università. Di qui, in esso, la rapida applicazione e la messa a punto di quel metodo che ne fece il modello di tutti i collegi della Compagnia; il quale, opportunamente integrato e codificato, dette essere alla famosa Ratio Studiorum del 1591 e 1599. Venti anni dopo, Ruggero Bacone doveva canonizzarlo scrivendo: «Per quanto riguarda la pedagogia, è presto detto: Va a vedere le scuole dei gesuiti; di meglio non si trova»27. Ma a Roma, in particolare, la Compagnia aveva raccolto quanto di meglio poteva disporre in professori di chiara fama; sicché Pio IV vi ricorse per la traduzione araba dei decreti del Concilio di Trento (1564), Gregorio XIII per la riforma del Calendario (1582), e qualche anno dopo cominciava a ricorrervi anche il giovane Galilei (1587) per trovarvi prezioso appoggio alle sue intuizioni astronomiche...
Fatto sta che il Collegio Romano passava come una delle meraviglie della Roma papale. Praticamente, non c’era ospite dell’Urbe di qualche cultura o dignità, che non ne facesse la meta di visita ammirata ed argomento di ampi elogi. Valga per tutti quello dello stampatore veneto Aldo Manuzio, il quale, proprio nel 1563 – certamente, dunque, tutti i congregati delle prime origini lo videro – vi si recò28. Nella prefazione al Sallustius, da lui stampato quattro anni dopo (1567), egli scrive:
«Al Collegio Romano della Compagnia di Gesù, Aldo Manuzio, figlio di Paolo. Dirò il vero. L’anno scorso, invitato da mio padre, lietissimo venni a Roma, desideroso di vedere con i miei occhi le meraviglie di cui tanto avevo letto, e di calcare con i miei piedi i luoghi che sapevo essere stati sedi e domicilio di uomini illustri. In realtà, presi molto diletto dei monumenti antichi, che testimoniano o dell’ingegno di artisti sommi, o dei costumi e della cultura delle età passate. Tuttavia, non marmoree e bronzee statue, non la vista dei sette colli, né la superba visione del Campidoglio, suscitarono in me tanta gioia ed ammirazione, quanta la dignità e l’ordine del vostro Collegio; dove nulla ho visto di futile e di effimero, tutto invece ho trovato indirizzato a frutto perpetuo di gloria vera ed ad eterna salute delle anime. Ben a ragione, quindi, gli alunni vi accorrono ogni giorno più numerosi, dato che lo scopo del vostro nobile insegnamento non è né la fama né il danaro – molle potenti dell’operosità di altri – ma soltanto la ricompensa celeste».
Tutto porta a credere che i congregati, più che tutti gli altri alunni, si siano sentiti investiti da quell’onda di entusiasmo culturale, e che, non contenti di quanto il Collegio impartiva foro, conforme al criterio di élite che aveva dato il via alle particolari adunanze di pietà, cercassero di distinguersi anche in fatto di cultura. Abbiamo visto, infatti, che le recite divennero loro appannaggio. Un documento del 1570 nota: «Las academias que hazen los scholares forasteros, de la congregación de nuestra Señora, una de filósophos y otra de humanistas, crecen en número y se señalan entre los otros en la doctrina, y no menos en la piedad»29.
Molto verisimilmente si tratta di circoli di studio, che cercavano di imitare ed emulare quanto gli studenti gesuiti più agevolmente potevano praticare data la loro vita di comunità; nei quali circoli i congregati si esercitavano in ripetizioni, saggi di composizione, declamazioni e dispute30. Ancora nel 1577 soltanto i congregati mariani potevano essere membri delle accademie del Collegio Romano; e questa disposizione venne estesa, di norma, a tutti i collegi della Compagnia dalla Ratio Studiorum, che prescrisse al rettore: «Si adoperi perché la congregazione della B.V. Annunziata del Collegio Romano si propaghi anche nel suo. Chi non vi fosse iscritto non dovrebbe essere ammesso nell’Accademia, nella quale sogliono tenersi le esercitazioni letterarie, seppure il Rettore non creda, nel Signore, di dover fare altrimenti»31.
Cattolicità
Insieme con quest’aura di cultura umanistica, i primi congregati respirarono a pieni polmoni quella della più aperta cattolicità. Non solamente perché risiedevano in quella Roma che, di diritto e di fatto, è patria di tutti i cattolici, ma perché proprio nel Collegio Romano, specie in quei primi decenni, la cattolicità della Chiesa romana si manifestava in modo quanto mai luminoso; a cominciare dalla diversità di provenienza dei professori. Infatti, tra quelli che vi insegnarono dal 1563 al 1584, cioè nei vent’anni intercorsi dal primo germe della Prima Primaria alla sua erezione canonica, ne troviamo una venticinquina provenienti dagli Stati italiani, una quindicina di spagnuoli, e poi francesi, portoghesi, bavaresi...32. Ma occorre aggiungere che l’estrema mobilità dei gesuiti durante quel loro felice periodo di crescita primaverile, faceva sì che ognuno di quegli infaticabili giramondo, in fatto di cattolicità valeva per dieci. Per riferire soltanto del Leunis: quando egli, trentenne, assumeva la sua «infimetta» al Collegio Romano, già aveva viaggiato dal natio Belgio a Roma (1556), aveva insegnato a Perugia ed a Montepulciano (1557), aveva accompagnato il Du Coudret ad Annecy (in Savoia, 1558), di qui aveva proseguito su Parigi (1559), donde era tornato a Roma (1560); e prima di morire poco più che cinquantenne (1584), aveva ritrottato da Roma a Parigi, e viceversa, almeno per altre sei volte, con punte a Perugia e Loreto, Lione ed Avignone, Torino e Padova...
Ma quel che non finiva di riempire di meraviglia i visitatori era la diversità di provenienza degli alunni. Ed alunni e docenti erano tanto consapevoli di costituire, sotto questo riguardo, spettacolo più unico che raro, che non si lasciavano sfuggire occasione per darne prove vistose, inondando di iscrizioni plurilingui gli apparati festivi, sia liturgici sia accademici, e soprattutto profferendosi in saggi poliglotti orali. La cosa era diventata ormai usuale già nel 1562, come riferisce il p. Francesco Stefano, scrivendo che, venuti a visitare il Collegio il card. Borromeo e l’ambasciatore di Filippo II, Francesco Vargas, dalla scuola di Retorica passarono i due illustri personaggi per tutte le altre parti del Collegio, salutati da un numero straordinario di componimenti poetici in varie lingue, che, scritti in grandi fogli, erano appesi alle pareti. Provaron gusto speciale al vedere un così gran numero di studenti...; e al sentire la diversità dei loro linguaggi mostraron desiderio che gli alunni di una nazione si separassero da quelli di un’altra, in modo che ciascuna nazione formasse gruppo a sé. Compiaciuti in questa loro brama, si vide che gli scolastici appartenevano a ben diciassette nazioni diverse per linguaggio, ma tutti uniti come se fossero di un medesimo Stato33.
Il 31 luglio 1564 – e questa volta certo vi parteciparono anche i congregati del Leunis – toccò al papa Pio IV una simile soddisfazione. «Egli venne in Collegio Romano per la porta maggiore, che allora rispondeva nella Piazza di S. Mauto, in faccia alla guglia; entrò nel cortile delle scuole. Questo era vagamente ornato di seta con sopra una gran quantità di emblemi, d’imprese e di bellissime composizioni poetiche fatte in lode del Papa. Le composizioni erano in sedici linguaggi, che appunto di tante nazioni diverse era composta la moltitudine dei nostri giovani religiosi, che presentemente abitavano in Collegio»34. Ma l’11 gennaio 1582 si volle proprio strafare; e veramente l’occasione lo meritava. In quel giorno, infatti, il card. Filippo Buoncompagni, a nome del papa Gregorio XIII, pose la prima pietra della nuova grandiosa fabbrica definitiva. Dopo la cerimonia, il Buoncompagni, altri cardinali ed il loro seguito andarono a pranzo con la comunità del Collegio; e gli studenti gesuiti, durante il pranzo, si esibirono in ben venticinque lingue differenti!35.
Ma, anche qui, occorre non equivocare! Oggi noi possiamo giudicare anche un po’ troppo spettacolari quelle manifestazioni, però agli scolari che vi partecipavano non sfuggiva davvero l’eroica realtà di conquista apostolica che le sostanziava. Essi sapevano che tedeschi ed inglesi, francesi e belgi, svizzeri, polacchi, austriaci, boemi ed ungheresi... confluivano al loro Collegio Romano con lo scopo preciso di formarsi specialisti della riconquista dell’Europa perduta dalla secessione protestante; non solo, ma che da quelle loro aule sciamavano ogni anno missionari verso l’Africa, le Indie ed il Giappone, e verso le misteriose terre del Nuovo Mondo, i quali si stimavan fortunati se potevano barattare i loro studi accademici con la conversione d’infedeli, e gli allori dottorali con la palma del martirio.
Cosi i congregati vivevano in pieno clima di verace controriforma, desiderosi non solo di riportare alla Chiesa quanti se ne erano staccati, bensì anche di diffondere il vangelo dove non era stato mai predicato; e ciò con le armi più valide in imprese del genere: profonda carità, soda pietà, eroica abnegazione, fuse nel più armonico sviluppo dei più genuini valori umani. Non per nulla la congregazione mariana del Collegio Romano, prevenendo con l’esempio tutte le altre che dovevano seguirla, divenne semenzaio di apostoli «totali»; già, infatti, nel 1567, venti di essa chiedevano di entrare nella Compagnia di Gesù, e tre l’ottenevano, mentre nel 1570 ancora tre li seguivano, ed altri entravano in differenti ordini religiosi36.
Proprio in quel 1563, chiusosi felicemente il grande Concilio, il padre Polanco, segretario della Compagnia, terminava realisticamente una sua lettera da Trento, osservando: «Quedará la execución, que es lo que mas emporta»37. Senza saperlo, il padre Leunis, con qualche mese di anticipo, in armonia con quanto i suoi confratelli praticavano altrove, da Roma aveva lanciato una leva di valorosi laici, che avrebbe molto facilitato quell’arduo compito.
1 Così nell’iscrizione che si legge sulla porta d’ingresso della odierna cappella della Prima Primaria.
2 In questo e nel saggio seguente, tra le fonti ed il molto che è stato scritto in argomento, teniamo particolarmente presenti:
- Monumenta Historica l., Polanci Complementa, 2 voll. (Madrid 1916 e 1917), che citeremo con POLANCI.
- Origine del Collegio Romano e suoi progressi Manoscritto del sec. XVIII (Archiv. dell’Università Gregoriana, n. 142), che dipende da storie ufficiali della primitiva Compagnia e forse da diari domestici; largamente utilizzato dagli autori seguenti. Lo citeremo con Origini.
- Elder MULLAN S.I., The Sodality of Our Lady, Studies in the Documents (New York 1912); con ampia bibliografia a pp. XXII ss. Lo citeremo con MULLAN, rimandando alle pagine ed ai numeri marginali dell’edizione italiana.
- Ernesto RINALDI S.I., La Fondazione del Collegio Romano, Memorie storiche (Arezzo 1914). Lo citeremo con RINALDI.
- Emile VILLARET S.I., Les Congrégations Mariales (Parigi 1947). Lo citeremo con VILLARET.
- Joseph WICKI S.I., Le père Jean Leunis S.l. (Roma 1951). Lo citeremo con WICKI.
- Riccardo VILLOSLADA S.I., Storia del Collegio Romano (Roma 1954). Lo citeremo con VILLOSLADA.
3 Essa dice: MARIAE – MATRI DEI RENUNCIATAE – QUAM HAC IN IMAGINE PUERULI – PRIMIS ELEMENTIS IMBUTI A JOANNE LEONIO E S.I. – COLUERUNT A. MDLXIII – SUA REFERT EXORDIA – SODALITAS MARIANA PRINCEPS – A GREGORIO XIII SOLEMNIBUS LITTERIS FIRMATA – A. MDLXXXIV. Meglio, nel documento pontificio al quale rimanda l’iscrizione (la bolla Omnipotentis Dei) si parla di pii adolescentes litterarum studiis... insistentes.
4 Essi furono: Grammatica, Retorica, Dialettica, Filosofia naturale e morale, Matematica e Teologia scolastica (RINALDI, p. 107; VILLOSLADA, p. 88).
5 Il DONATO era il testo latino De octo partibus orationis, con la versione italiana. Per l’orario ed il programma di questa prima classe, cfr RINALDI, pp. 113-114, VILLLOSLADA, p. 85 ss.
6 M. VANTI, San Camilla de Lellis, Torino 1929, p. 82. Tuttavia non è certo che il santo sia stato congregato. Lo stesso Vanti, che nella vita non parla affatto della cosa, nel suo Lo spirito di san Camilla de Lellis (Roma 1944), lo dà solo come probabile. Cfr anche VILLARET, p. 514.
7 Lettera del p. Tommaso Raggio, 30 giugno 1563, in POLANCI, I, p. 375.
8 Lettera del p. Prospero Malavolta, 14 luglio 1564, in POLANCI, I, p. 471. Un’altra lettera del Polanco, 1º gennaio 1567, parla esplicitamente di giovani (ivi, I, p. 619).
9 Alfonso CHACON, Vitae et res gestae Romanorum Pontificum, Roma 1672, vol. IV, p. 195.
10 MORONI, Dizionario di erudizione ecclesiastica, sub voce. Erra, però, quando fa morire il Bandini, di 61 anno, nel 1629. In quest’anno doveva averne almeno 80, se si vuole che il famoso panegirico non l’abbia declamato... cinque anni prima di nascere.
11 Ovviamente, tutti questi computi risulterebbero fuori proposito se alla notizia del Chacon si dovesse dare un’altra interpretazione; –per esempio, che i tre personaggi abbiano coperto cariche più o meno effettive o d’onore nella Prima Primaria, come darebbero ansa a credere alcuni dati, non so quanto sicuri, raccolti dal Segretario della P.P. nel 1725 (riportati da MULLAN, History of the Prima Primaria Sodality, 1917, p. 441 ss.). In essi risulterebbe che il Perbenedetti sarebbe stato prefetto della P.P. nel 1575 (ivi, p. 446); il Valerio vi sarebbe appartenuto nel 1583 (ivi, p. 460) a 53 anni; il Bandini nel 1596 (ivi, p. 461) a 47 anni!
12 Fr. SACCHINI, Historia Societatis Jesu (1564-1590), parte III, lib. 5, n. 48; POLANCI, II, p. 87. Dopo il 5 dicembre 1584, quando Gregorio XIII, con la bolla Omnipotentis Dei, eresse canonicamente la congregazione del Collegio Romano a «Primaria» delle altre congregazioni mariane, appunto il gruppo degli alunni sopra i diciotto anni ebbe il titolo di Prima Primaria, restando all’altro gruppo quello di Seconda Primaria. Poi venne anche una Terza Primaria, e nel 1594 anche una Quarta Primaria (VILLARET, p. 118 ss.).
13 Questi due criteri avevano suggerito ai primi gesuiti molte iniziative, nella scia delle quali si mosse quella del p. Leunis; il quale, perciò, più che inventore di un metodo e fondatore delle congregazioni mariane, si dovrebbe dire continuatore di un uso ormai collaudato ed iniziatore della compagnia (meglio che congregazione) del Collegio Romano (cfr VILLARET, p. 23 ss.). E nella cit. lettera del Malevolta, si trovano sufficienti indicazioni sul come i due criteri si adottassero anche all’interno della stessa prima «compagnia»: Quo feliciter omnia Deo favente succedant, quamquam totae congregationi... unus Patrum collegii moderatur, ipsi nihilominus ex prudentioribus et maioribus natu, praefectum renuntiant, cuius in primis officium est duodecim veluti decuriones eligere, eorumque fidei divisam in totidem partes congregationem tradere, ne quid unquam, si vitari possit, vel indecore in vita, vel negligenter in studiis fiat. Haec, ut opinor, facile denotant, quibus apud nos moribus iuventus imbuatur,. (POLANCI, I, p. 471). – Per il 1570, cfr ivi, II, p. 87.
14 VILLOSLADA, p. 40.
15 POLANCI, I, p. 373 e 375.
16 VILLARET, p. 88 ss.
17 Citato da RINALDI, p. 79 ss.; il quale, tuttavia, pone il fatto nel 1575. POLANCI (II, p. 710), meglio, lo dà sotto il 1570; tuttavia non nominando esplicitamente i congregati, bensì soltanto alios externos scholasticos. Per la fama che il Germanico si era acquistata nel teatro fin dal 1564 ed anni immediatamente seguenti, cfr POLANCI, I, pp. 477, 571, 621; II, pp. 14, 661.
18 POLANCI, II, p. 13.
19 POLANCI, 1, p. 375; per l’anno seguente scrive il p. Malevolta (ivi, I, pp. 470 e 471).
20 Nostro in templo conciones audire, pauperibus inservire..., scrive lo stesso Malevolta (ivi, p. 471); e Crebro etiam in xenodochiis et alibi ministrando pauperibus, pio christiani hominis funguntur officio (ivi, I, p. 619).
21 Per avere un’idea degli ospedali del ’500 bisognerebbe leggere le terribili descrizioni degli storici del tempo. Bastino qui alcune battute del Ciccatelli, primo biografo di san Camillo de Lellis, del santo cioè che i primi congregati trovarono come Maestro di Casa all’ospedale di San Giacomo degli incurabili. «Erano questi sì abborriti per la schifezza, e sì temuti per il pericolo di lasciarvi la vita, che si stentava non poco a trovar Sacerdoti, anche di mediocre dottrina, che fossero disposti a sceglierli per la loro stanza ed albergo. I Vescovi ancor più zelanti, ed i Signori, che vegliavano con maggior attenzione al lor mantenimento, per carestia di sufficienti Ministri, erano costretti (massimamente in tempo di peste od altro male contagioso) a valersi di persone ignoranti, bandite o colpevoli, ed inquisite, confinandole quivi in penitenza e castigo. Onde avveniva che standovi come incatenati e per forza, od al più per la sola mercede, quasi niun sollievo ed utilità potean portare agli infermi. Morivano di fatto la maggior parte senza Confessione, senza Comunione, senza Olio Santo, e senza che alcuno raccomandasse loro l’anima... Certa cosa è che i poveri moribondi penavano i giorni, e le notti intere nelle loro dolorose agonie, senza che alcuno accostandosi o porgesse loro un minimo sollievo, o proferisse una sillaba per loro consolazione... Quante volte, per difetto di chi recasse loro il cibo necessario, passavano gl’interi giorni digiuni, e privi di ogni alimento! Quanti, più aggravati dal male, non comparendo veruno a rifar loro i letti, si marcivano nelle brutture e nei vermi! Quanti, deboli ed estenuati, nel levarsi dal letto per qualche bisogno, cadendo a terra morivano, o si rilevavano gravemente feriti. Quanti altri, presi in braccio da serventi di poca, anzi niuna carità, erano sì inumanamente maneggiati, che tornava loro in eccidio il medesimo soccorso!... E piacesse a Dio che finita fosse lor crudeltà, e non gli avessero di soprappiù schiaffeggiati, ammaccati con urtoni, e con pugni, legati senza veruna ragione, e strapazzati in altre sconvenevoli guise... E sappiamo di certo che più d’uno, diventato per lo strano ardore poco men che rabbioso, arrivò a segno di bere l’urina, il sangue, l’oglio delle lampade... Soggiungerò cose non credibili e nulla ostante verissime. Quanti, non finiti ancor di morire, da que’ giovani mercenari erano tratti con precipizio da loro letti, e mezzi vivi com’erano, portati fra’ corpi morti per essere vivi sepolti! In un certo spedale d’Italia... seguì che, entrato Camillo nella stanza dei morti, trovò fra i cadaveri un uomo, e dal sangue, che grondava per una ferita lasciatagli in fronte dalla caduta, o a dir più vero dall’urto che gli era stato dato nel buttarlo a terra, argomentando che fosse ancor vivo, gli si fece appresso, e lo ritrovò agonizzante; l’aiutò a riporre nel letto, ond’era stato tolto: e sopravvisse tre giorni» (S. CICCATELLI, Vita di san Camillo de Lellis, 1837, pp. 87 e 89).
E non meglio della pietà era osservata l’igiene. «I pavimenti sono ricoperti d’uno strato di sudiciume. Camillo farà uso d’una paletta di ferro per raschiare quelli dell’Ospedale Maggiore di Milano. I letti, in legno, sono invasi di parassiti, cimici e pidocchi in tanta copia da mettere schifo e ribrezzo... Nelle corsie, anche in quelle più alte e sfogate, stagna un’aria così pesante e fetida che un uomo dura fatica resistervi a lungo» (ivi, p. 39).
22 POLANCI, I, p. 496.
23 RINALDI, pp. 83-84.
24 PATRIGNANI, Menologio di pie memorie di alcuni religiosi della Compagnia di Gesù dal 1588 al 1728.
25 TACCHI VENTURI, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, I, Roma 1938, cap. 19, n. 5.
26 VILLARET, p. 47.
27 R. BACONE, De dignitate et argumento scientiarum, lib. VII, Londra 1623.
28 POLANCI, I, p. 423.
29 POLANCI, II, p. 106.
30 MULLAN, nn. 468 e 469.
31 Reg. 23 del Rettore. E nelle Regole dell’Accademia si legge: «1 – Col nome di Accademia intendiamo un gruppo di studiosi, scelto tra tutti gli studenti, i quali con uno dei Nostri quale Prefetto, si adunano insieme per tenere alcune speciali esercitazioni spettanti gli studi. 2 - Sono in questo numero compresi tutti gli appartenenti alla Congregazione della Beata Vergine, per il fatto stesso che sono in essa ricevuti; ed i religiosi, se ve ne siano, che frequentino le nostre scuole. Però, dove c’è l’uso e il Rettore lo creda, si potranno ammettere anche altri che non siano della Congregazione ed anche non dei nostri scolari (Ratio Studiorum, trad. con introd. e note di M. BARBERA S.I., Padova 1942, pp. 137, 232 e 233).
Circa i rapporti poi intervenuti nel Collegio Romano tra Congregazione ed accademia, cfr MULLAN, n. 106, tit. III.
32 Cfr elenco dei professori, in VILLOSLADA, p. 322 ss.
33 PILANCI, I, p. 331.
34 Origini..., in RINALDI, p. 76.
35 Ivi, p. 101.
36 POLANCI, II, pp. 12 e 106.
37 POLANCI, I, p. 417.