Articolo estratto dal volume I del 1964 pubblicato su Google Libri.
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Nella parte della «Nunziata» che il piccone demolitore sacrificò alla nuova chiesa di Sant’Ignazio*, ci fu anche l’abside – che occupava lo spazio dove oggi si estendono i gradini dell’altar maggiore, dal lato dell’epistola – e con essa sacrificò anche il grande affresco dell’Annunciazione che ornava il catino. L’iscrizione – già da noi ricordata – che si legge nella stessa chiesa di Sant’Ignazio, assicura che un pezzo di quell’affresco si sarebbe conservato a tutt’oggi, e precisamente la parte centrale, raffigurante la Vergine Annunciata, e che avanti ad esso si sarebbero raccolti i primi congregati del Leunis.
Abbiamo visto entro quali limiti vada intesa questa seconda asserzione**, cioè in modo da escludere almeno i tre o gli otto anni intercorsi tra il 1563, anno della iniziativa del Leunis, e il 1566, anno dell’affresco, o il 1571, anno in cui i congregati poterono forse tenere regolarmente le loro adunanze nella chiesa della Nunziata. Ma, anche così ridimensionati i fatti, conserva un suo interesse sapere se il «pezzo» oggi esistente abbia veramente fatto parte dell’affresco abbattuto, sia per i ricordi affettivi e religiosi annessi a quel che resta della vecchia chiesetta, sia per il valore artistico dello stesso affresco, giacché, dopo tutto, Federico Zuccari non fu pittore da buttar via.
Gli o lo Zuccari?
Federico Zuccari – o Zucchero e Zucharo, come preferisce il Vasari1 – era stato portato a Roma dalle Marche, sui dieci anni, nel giubileo del 1550, da Ottaviano suo padre, il quale, «carico com’era di sette figli maschi e di una femmina», s’era risolto a togliersi quella bocca a carico affidandolo al fratello maggiore Taddeo (1529-1566), che, appena ventunenne, si stava facendo un certo nome tra i pittori a Roma.
Difatti, dopo qualche tentativo di applicarsi alle lettere, il ragazzo, già verso il 1552-’53, tredicenne, aiutava il fratello nel chiaroscuro «in fare un fregio grande in una sala, ed altri in altre stanze della casa Giambeccari, sopra la piazza di S. Apostolo, ed altri fregi che fece alla Guglia di S. Mauto», e verso i sedici o diciassette anni * «cominciò a maneggiar colori», indi * «a pigliar animo nei colori a fresco», fino a lavorare ormai da solo. Questo pare che sia avvenuto la prima volta
«sotto le scale dell’Araceli, in casa d’un gentiluomo, chiamato Stefano Margani romano, nello sfondato d’una volta» dove fece «un monte Parnaso. Onde Taddeo, veggendo il detto Federigo assicurato, e fare da sé con i suoi propri disegni, senza essere più che tanto da niuno aiutato, gli fece allogare dagli uomini di Santa Maria dell’Orto a Ripa in Roma (mostrando quasi di volerla fare egli) una cappella; perciocché a Federigo solo, essendo anco giovinetto, non sarebbe stata data giammai».
D’allora in poi, per circa dieci anni, i due fratelli operarono spesso insieme, spesso lavorando Federico in aiuto di Taddeo, e, dopo la morte di questi (1566), in finire le opere da lui cominciate. Molti di questi lavori vennero eseguiti intorno o nei paraggi del Collegio Romano2. Ciò non poté non attirare l’attenzione dei gesuiti sui due artisti marchigiani; sicché quando nel 1565 terminarono di murare la chiesetta, la scelta di farne affrescare il catino dell’abside cadde su loro. Scelta, forse, facilitata dalla circostanza che, al dir del Vasari, in quel tempo «erano mancati in Roma i più eccellenti: il Buonarroti, il Salviati e Daniello», ed anche dall’altra che i due erano in fama di lavorare con molta rapidità. Fatto sta che l’incarico fu loro commesso nel gennaio-febbraio del 1566, e portato a termine nel settembre.
Vi lavorò solo Federico, o a lui si deve soltanto il compimento dell’opera di Taddeo? Per la seconda tesi sta l’opinione comune, che attribuisce il lavoro «ai fratelli Zuccari»3, opinione appoggiata, pare, sull’autorità del manoscritto Origini del Collegio Romano, solitamente molto attendibile4, ma, almeno in questo particolare, non tanto quanto l’è il Vasari. Questi, infatti, diede fuori la seconda edizione delle sue Vite nel 1568 (la prima era stata nel 1546), due anni appena dopo il fatto che c’interessa, e vi si dimostra, più che altrove, informatissimo su questi avvenimenti. Riporta, per esempio, la data di morte di Taddeo ed il giorno preciso dell’arrivo a Roma di Federico: 16 gennaio; minuzie cronologiche tutt’altro che frequenti in lui. Del resto, della sua attendibilità ci fa fede lo stesso Federico Zuccari, il quale, dato l’animo velenoso col quale scrisse, come vedremo, le sue postille alle Vite dell’a lui inviso Vasari, trovandovi a proposito ed a sproposito mende ed inesattezze, certamente non si sarebbe lasciato sfuggire un vero errore, qualora l’avesse trovato.
Ora, sulle notizie concernenti la Nunziata egli non trova nulla da correggere, quando il Vasari è esplicito nell’attribuire a Taddeo la commissione del lavoro ed a Federico l’esecuzione; cosa che, come s’è visto, era già avvenuta, a motivo della maggior fama di Taddeo e della giovanile età di Federico. Scrive il Vasari:
«Avendo in quel mentre preso per Federigo una cappella da farsi in fresco nella chiesa de’ preti riformati del Gesù alla guglia di San Mauto, esso Federigo vi mise subitamente mano». Fatte poi altre opere «se ne tornò a Roma alla sua opera della detta cappella, conducendola, come ha fatto, a fine. Nella quale ha fatto un coro di molti Angeli e variati splendori, con Dio Padre che manda lo Spirito Santo sopra la Madonna, mentre è all’Angelo Gabriello annunziata, e messa in mezzo da sei Profeti, maggiori del vivo, e molto belli».
Ed aggiunge, come per togliere ogni dubbio sulla non collaborazione di Taddeo, che questi allora «attendeva all’opera della Trinità con molta sua quiete... seguitando intanto di fare nella Trinità in fresco l’Assunta della Madonna», opera che doveva interrompere per la malattia mortale che lo colse quell’estate5. Con ciò, certo, non si esclude che Taddeo possa aver concorso nell’idea generale, e magari anche nei progetti sui cartoni; anzi ciò, e lui ed altri devono averlo fatto sicuramente, perché l’affresco, come si vedrà, suppone conoscenze storiche, teologiche e liturgiche troppo superiori alla cultura di Federico. Del resto, una rottura avutasi sei od otto anni prima tra i due fratelli, a proposito dell’affresco sulla facciata della dogana presso S. Eustachio, doveva aver persuaso Taddeo che collaborare con l’irascibile fratellino non era possibile. Continua, infatti, il Vasari:
Perché Federico non aveva più che 286 anni, Taddeo, che pure considerava quell’opera essere in luogo pubblico, e che importava molto all’onore di Federigo, non solo andava alcuna volta a vederlo lavorare, ma anche talora voleva alcuna cosa ritoccare e racconciare. Perché Federigo, avendo un pezzo avuto pacienzia, finalmente trasportato una volta dalla collera, come quegli che avrebbe voluto fare da sé, prese la martellina, e gittò in terra non so che che avea fatto Taddeo, e per isdegno stette alcuni giorni che non tornò in casa. La qual cosa intendendo gli amici dell’uno e dell’altro, feciono tanto che si rapattumarono; con questo, che Taddeo potesse correggere e mettere mano nei disegni e cartoni di Federigo a suo piacimento; ma non mai nell’opere...
Un caratteraccio
Dobbiamo rilevare che il pittore della nostra Madonna fu un tipo moralmente poco simpatico. Al contrario, infatti, di Taddeo, che fu «amorevole degli amici, e dove potette giovare loro se n’ingegnò sempre»7, soprattutto le velenose note con cui postillò le Vite del Vasari mostrano un Federico maledico, invidioso e cattivo (oltre che pretenzioso in cultura, nonostante la sua sgangherata ortografia e grammatica)8. L’unico pittore che in quelle difenda è Taddeo, il quale è predicato da lui come il non plus ultra degli artisti. A proposito di alcuni chiaroscuri scrive:
* «Si vede in questa opera salti mirabili, e ognora migliorando di sorta tale che le due ultime instorie sono meravigliose, e con tanta fiereza e inteligenzia e grazia manegiato quel ciaro e schuro, che non par posibile far più e meglio in sl fatta maniera; e ben merita essere sommamente lodato». Non meno grandissimo artista lo predica per i ritratti: * «Fece anchora Tadeo un ritrato... quale ritrato è cosa rara. E ne’ ritrati Tadeo [ha] avuto grazia infinita, come in ogni altra cosa»; insomma, conchiude: * «In questa che è opera veramente ecelente si cogniosce quanto Tadeo fose e studioso e grazioso e ne’ componimenti e in ogni altre cose che egli aveva a rapresentare, che veramente niuno à dipinto meglio di lui».
Se la prende, invece, col Salviati, che giudica * «scoreto e senza decoro»; con i fiorentini in genere, e in specie col Vasari; e più questi, nelle sue Vite, lo loda, e forse qualche volta adula lui e Taddeo, fino a ravvicinare quest’ultimo addirittura a Raffaello9, e più Federico lo ingiuria, tacciandolo di bugiardo (* «mente per la gola»), di campanilista (* «se fosse stato fiorentino, l’avrebe lodato di altra maniera, come merita lode suprema; ma dice quello che non può tacere, et altrove, ove dovrebe tacere, cicala apasionato, senza ragione alchuna»), e maledico (* «amico finto, e maledico senza ragione»).
A farlo pensare e scrivere così sembra che sia stata quella brutta invidia che lo spinse a superare il Vasari così nel dipingere come nello scrivere; col bel risultato che, «se nella pittura gli contrastò il non invidiabile vanto di far molto e presto, nell’arte poi dello scrivere gli rimase talmente al di sotto, da sembrare, esso, al confronto, la rana di Esopo»10.
L’affresco
Questo, del dipingere molto ed in fretta, magari ricorrendo senza risparmio a lavoranti di bottega (*«Si servì Federigo di molti lavoranti, come occore in simili lavori, per darli presto fine come fece, a volontà del ditto cardinale, che volea le cose getate a stampa»), consta dallo stesso Vasari, secondo il quale, in circa sette mesi, quanti si applicò alla progettazione e preparazione dei cartoni ed all’esecuzione dell’affresco della Nunziata, Federico, oltre che attendere alle molte e svariate incombenze occorrenti per permettere a Taddeo di applicarsi senza pensieri al suo lavoro di Trinità dei Monti:
fece in un quadro San Piero in prigione, per lo signor duca d’Urbino; ed un altro, dove è una Nostra Donna in cielo, con alcuni Angeli intorno, che doveva essere mandato a Milano; in un altro, che fu mandato a Perugia, un’Occasione. Avendo il cardinale di Ferrara tenuto molti pittori e maestri di stucco a lavorare a una sua bellissima villa, che ha a Tigoli, vi mandò ultimamente Federigo a dipignere due stanze, una delle quali è dedicata alla Nobiltà e l’altra alla Gloria... e ciò finito, se ne tornò a Roma alla sua opera della detta cappella, conducendola, come ha fatto, a fine.
E la fretta dovette essere anche maggiore a causa d’una malattia che gli portò via molti giorni di quell’estate, e della premura che i suoi committenti avevano di aprire al culto la chiesa.
* * *
Delle probabili misure e dell’ubicazione dell’affresco avremo ragione di parlare subito ed estesamente; passiamo perciò a descriverne la composizione, cosa fortunatamente ancora possibile per merito del grande acquafortista olandese Cornelis Cort, che nel 1571 ne esegui una splendida riproduzione in rame, un esemplare della quale, purtroppo mal ridotto e non privo di lacune, si conservava nella Galleria Corsini di Roma11.
La composizione, che ricorda quella della Disputa di Raffaello, è divisa in quattro parti da due direttrici; orizzontale la prima, che divide la terra dal cielo; verticale l’altra, resa da una zona di luce che scende dall’Eterno Padre, passa attraverso la Colomba, forza un passaggio tra le ressa degli angeli e si effonde tra la Vergine annunziata e l’Angelo annunziante.
La parte inferiore centrale è occupata dal mistero. A sinistra è la Madonna, di profilo, col lato destro allo spettatore, inginocchiata ad un genuflessorio. Non ha ancora avvertito la presenza dell’angelo, immersa com’è nella preghiera, o meglio, nella lettura delle profezie messianiche che la riguardano. La sinistra è al petto, la destra s’apre in atto di ammirazione. Dal capo nimbato scende un manto abbondantissimo, e dalle spalle le ricade nel seno, qui aprendosi in ampia voluta come per accogliere il Verbo Incarnando. Avanti alla Madonna sta l’angelo Gabriele, in atto di ripiegare le ali, che, già il ginocchio a terra, comincia a porgere il suo annunzio: l’indice della destra spiegato indica la luce dello Spirito Santo, la sinistra sorregge un giglio esuberante e flessuoso. Intorno a Gabriele, sotto di lui, a sostegno ed avanti a lui, tra un rigonfiarsi di nubi, una decina di angioletti, alcuni dei quali appena accennati. Avanti al genuflessorio della Madonna, con alcuni oggetti domestici, un arcolaio vuoto.
Dietro il mistero centrale una costruzione architettonica prende corpo. Questa, al centro, è quasi annullata dall’irrompere della luce da una finestra aperta, e dall’indistinto fluttuare degli angeli; ma dietro le spalle della Madonna, lascia scorgere netta una finestra con anfora ed asciugatoio, e verso le estremità prende un massimo risalto in un violento alternarsi di spigoli e di curve, di luci e di ombre. In piedi, nelle due nicchie laterali ricavate in questa costruzione, prendono posto i due profeti dell’Incarnazione: Isaia e Geremia, mostrando i rispettivi cartigli della profezia. Avanti alle nicchie, in un ripiano che funge da sedile, due per parte, altri quattro profeti mariani. A sinistra, Mosè e David; a destra, Salomone ed Aggeo; i due primi mostrando, poggiandola sulla coscia, l’iscrizione profetica; gli altri due tenendola, a metà coperta, posata in terra12.
Ai lati, tra la composizione architettonica ed i margini dell’affresco, cioè nelle parti meno visibili della navata, l’artista ha raccolto una specie di antologia di simboli mariani. A sinistra, in un paesaggio fantastico, ha dipinto: il sole, la città, la rosa, il giglio, la chiesa, la palma, l’orto chiuso e l’ulivo; a destra, in un altro simile paesaggio: la luna, il cedro, lo specchio, il pozzo, il platano, il cipresso, la fontana, la torre, il vello e la porta; vale a dire, in due serie, i temi contenuti nei due distici riportati in due riquadri bianchi:
Christiparam signat sol, urbs, rosa, lilia, templum,
Palma, hortus clausus, flos oleaeque decor.
Luna, cedrus, speculum, puteus, platanusque, cupressus,
Fans, turris, Mariam, vellera, porta notant.
Nella parte superiore, al vertice campeggia l’Eterno Padre, con la destra in atto d’inviare, e con la sinistra sorreggente il mondo, in una gloria di nubi e d’angeli fittissimi. Sotto, al centro d’una doppia raggiera, la Colomba ad ali spiegate. Tutt’intorno alle due Persone, un girare ed un irraggiare d’angeli, che vanno ingrandendo e prendendo sempre più distinta forma e fisonomia man mano che dal fondo emergono in secondo e in primo piano: molti di essi maneggiando strumenti musicali, altri indicanti oppure oranti, chi verso l’Eterno Padre e chi verso l’Annunciata. Nei due pennacchietti di raccordo tra l’incavo del catino e la superficie piana della navata, con evidente riferimento profetico a Gesù, novello Adamo, ed a Maria, novella Eva, a sinistra c’è Adamo piangente, ed a destra Eva, adagiati ambedue su frasche di fico, con altrettanto evidente allusione alla conseguenza del loro peccato, commentato dai versetti 21 e 23 del Genesi: Fecit Deus Adae et uxori eius tunicas pelliceas (sotto Adamo), e Et induit eos et emisit de Paradiso voluptatis (sotto Eva).
È agevole rilevare nella composizione gli influssi così di contenuto come d’espressione che l’hanno guidata, spiegabili in un giovanotto di ventisei anni. La somiglianza con la Disputa di Raffaello si avverte non solo nella doppia partitura orizzontale e verticale, ma anche negli abbondanti elementi simmetrici, quali la perfetta corrispondenza tra le strutture architettoniche, il far sedere i personaggi di un ideale colloquio in semicerchio intorno all’oggetto della loro conversazione, opponendo re a re, profeta a profeta, cartello a cartello, paesaggio a paesaggio; il separare i due piani con un poderoso piedistallo di nuvole. Ma si avverte anche l’emulazione del virtuosismo col quale l’Urbinate fa apparire concava una parete piana, con quello, invero ben riuscito a giudicare dalla riproduzione, di far apparire piana una parete concava. Rimembranza bramantesca è il «tempio» nel paesaggio a sinistra, riproducente il modello di S. Pietro in Vaticano che si trova in S. Pietro in Montorio; mentre michelangioleschi sono l’espressione di potenza del Mosè ed il gesto vigoroso del profeta Elia.
Più visibile ancora è l’influsso, questa volta dottrinale, dei professori del Collegio Romano, i quali dovettero indicare all’artista, non teologo, e il tema della composizione, e i riferimenti scritturistici, ed i simboli, con i rispettivi distici, per le scene laterali. Inoltre, dato il pubblico cui la visione dell’affresco – apertamente didattica – era destinata (gli alunni delle scuole), e la loro comprensibile reazione contro le nudità delle pitture e delle sculture del rinascimento anche nelle chiese, i «preti riformati» dovettero dare allo Zuccari disposizioni precise circa l’uso del nudo, che vi si mostra modicissimo. Vi appaiono, infatti, vestite non solo le figure dei profeti (a differenza di quelli michelangioleschi della Sistina), bensì anche quelle di Adamo e di Eva, ambedue vestiti di pelli, e questa più di quello, per quanto anche più modellata; e, fatte rare eccezioni, anche gli angeli. Col risultato che il virtuosismo anatomico, che altri pittori e lo stesso Zuccari poterono ostentare altrove, qui si mostra soltanto negli eccessivamente abbondanti panneggiamenti.
Come si distacca un affresco
Descritto nel suo insieme l’affresco dello Zuccari, alla domanda se il quadro che oggi esiste come «Madonna della Prima Primaria» possa ritenersi, o meno, un frammento di esso, vengono date due risposte; vale a dire: Sì, è un pezzo dell’affresco originale dello Zuccari; no, si tratta solo di una copia di quello (e vedremo di chi).
Per la prima tesi sta, come abbiamo visto, la iscrizione posta, probabilmente dal padre Cesare De Angelis e poco prima del 1891, nella chiesa di Sant’Ignazio, alla quale si rifanno altri che poi ne hanno scritto; e, primo tra tutti (1891), lo Schroeder:
Un buon augurio è per noi l’avere il P. Cesare de Angelis d.C.d.G. tratto fuori dall’oblio in cui era sepolto il più caro oggetto di tal chiesetta: cioè l’immagine dell’Annunziata di mano del famoso Zuccaro. Imperciocché nel demolire l’abside della chiesetta, acciò non andasse del tutto perduto il prezioso affresco, fu recisa dal muro la parte superiore dell’immagine della Vergine. Questo prezioso quadro rimase per molto tempo trascurato, ma presentemente, per merito del detto padre, fu ritoccato ed esposto frattanto nella chiesa di S. Ignazio nell’ingresso alle cappellette13.
Per la seconda tesi stanno le Memorie istoriche... della Prima Primaria, del 1865, che riferiscono: «Il quadro dell’altare fu allora l’esatta copia di quello dell’antica Chiesa dell’Annunciazione, lavoro di Federico Zuccari»14.
In mancanza di altre testimonianze che dirimano la questione di autorità, colmando il vuoto di quasi due secoli e mezzo che intercorre tra il 1626, anno dell’abbattimento dell’affresco, e la data di queste Memorie istoriche, non resta altra via che l’esame diretto del quadro oggi esistente, alla luce delle tecniche che si conoscono circa il distacco degli affreschi dal 1600 in poi15.
Procedendo, dunque, con ordine, notiamo che nella seconda metà del sec. XVI e nella prima del sec. XVII i distacchi di affreschi non erano sconosciuti. Forse il più antico che si ricordi lo riporta il Vasari come eseguito nella chiesa d’Ognissanti a Firenze nel 1564: «Questa pittura [un San Girolamo del Ghirlandaio], insieme con quella [un Sant’Agostino] di Sandro di Botticello, essendo occorso a’ frati levare il coro del luogo dov’era, è stata allacciata con ferri e trasportata nel mezzo della chiesa, senza lesione, in questi propri giorni in cui queste Vite la seconda volta si stampano»16. Ma pare che similmente si sia fatto in quel torno di tempo per un affresco del Masaccio in Santa Maria Novella17. Per Roma, si conosce un esempio clamoroso attuato proprio a due passi dal Collegio Romano nel 1637, quando, per ordine del cardinal Antonio Barberini, si trasportarono alla Minerva le pareti della camera ove era morta santa Caterina da Siena, e l’impiantito della stessa si trasportò a Magnanapoli18.
Il metodo di questi trasporti — spiega il Secco-Suardo — consisteva nell’isolare il pezzo di muro su cui poggiava [l’affresco], assottigliarlo se era eccessivamente grosso, ricingerlo con cerchi di ferro, e trasportare ad un tempo muro e dipinto... Ma la imperfezione di tale sistema – continuano gli stessi – era troppo palese...: molte volte accadeva che il dipinto esistesse sopra muri che non potevansi né abbattere né tagliare, ovvero di tal forma o natura da riuscire impossibile di levarne il pezzo dipinto, nel qual caso la misera pittura era condannata ad andare irrimediabilmente perduta, come sventuratamente avvenne ad uno dei capolavori del Correggio, ridotto per la massima parte in frantumi nella demolizione dell’abside di S. Giovanni a Parma19.
Nel caso dell’abside della Nunziata, due circostanze favorivano il buon successo di una siffatta operazione, ed erano: prima, che il muro di sostegno doveva essere totalmente abbattuto; seconda, che solo una parte modesta dell’affresco doveva essere salvata. Ma due la sconsigliavano, quali la curvatura della superficie affrescata e la non verticalità del pezzo da salvare. Perciò propendiamo nel credere che, se pure fu tentata, l’operazione ebbe a sortire l’effetto disastroso di quella del Correggio, se non nell’atto stesso di segarsi il muro, almeno durante i decenni seguenti, quando, non essendo ancora pronta la parte della nuova chiesa ove murarlo definitivamente, il frammento, ingombrante, pesante e fragile, dovette essere trasportato da un luogo ad un altro. Del resto, oggi, né in Sant’lgnazio, né altrove nell’isolato del Collegio Romano, si trova un frammento di affresco mariano murato, l’odierna «Madonna della Prima Primaria» essendo su tela, sia pure con una imprimitura tutta speciale, come vedremo. Non resta, dunque, che supporre che l’affresco sia stato trasportato direttamente su tela col metodo del collaggio, che descriviamo così.
Lavato bene l’affresco con acqua ed aceto bianco, lo si copre tutto con strisce di cotone imbevute di colla di pesce calda, spianandovele sopra in modo che vi aderiscano bene, senza rigonfiamenti e vuoti d’aria. Su questo primo strato se ne stende un secondo di tela di lino, attaccandovelo con adesivo fatto di farina e colla di pesce. Qualche giorno dopo, quando le colle hanno tirato e si sono ben seccate, cominciando dai bordi si sollevano le tele, le quali si portano appresso, strappandolo dall’arricciatura, tutto il velo di colore depositatovi dall’affreschista. Stesa la tela col verso in alto, distaccate e ridotte tutte le asperità che eventualmente avesse trasportate con sé dall’arricciato, si dà una mano di colla di pesce a tutta la superficie, e su questa, una volta asciutta, si applicano una o due mani di stucco (gesso da oro e colla di pesce) diluito. Su questa si passa a grandi pennelli un altro adesivo più complicato (latte, calce, siero di sangue, colla di pesce e chiara d’uovo) e subito si stende una tela di lino, raccomandata e stesa ad un telaio. Fatta la presa ed asciutta quest’ultima incollatura, si rovescia l’opera e con moderato uso d’acqua si staccano, prima quella di lino e poi quella di cotone, le tele anteriori. Tolti con un ultimo lavaggio tutti i residui di colla, l’affresco comparisce bello e luminoso come prima del distacco, risultando attaccato su tela invece che su muro.
Con questo metodo si riuscì a staccare e trasportare altrove affreschi anche grandissimi, quali, per esempio, il Sisto IV e il Platina, di Melozzo da Forlì, ora nella Pinacoteca Vaticana20.
Ma anche questa tecnica ardita comporta i suoi rischi. Alcuni dipendono dall’imperizia del distaccatore. Può verificarsi, infatti, che le tele provvisorie non aderiscano perfettamente all’affresco, o che la colla usata non sia sufficientemente tenace, o che, nel distacco, l’abuso di acqua calda sciolga non solo il glutine aderente al colore ma anche quello dell’arricciato...: allora il distacco del velo colorato avviene per zone o chiazze più o meno estese, e non sempre resta possibile reintegrarlo. Ma altri, e più gravi, possono dipendere dalla natura della pittura da distaccare. Se, infatti, questa è vero affresco, vale a dire eseguita con semplici terre colorate su arricciato di calce ancora fresco (di qui il termine: a-fresco), allora, se fatto a regola d’arte, il distacco non riserva sorprese, perché i colori, resi insolubili dal carbonato di calcio cui aderiscono, non ricevono danno di sorta né da colle né da lavaggi anche ripetuti21; se, invece, la pittura è, tutta o in parte, finto affresco, vale a dire, se è eseguita tutta a guazzo (colori a calce, che debolmente aderiscono sull’intonaco già secco), oppure è stata poi ritoccata a tempera (colori in acqua collosa, solubili a lavaggi), allora ogni tentativo di distacco si risolve in una di quelle rovine, totali o parziali, sofferte dall’arte italiana, quali, per esempio, nelle Storie del Genesi, di Benozzo Gozzoli, nel Camposanto di Pisa, perdute perché eseguite tutte a finto affresco, e nei dipinti del Baldovinetti nella Cappella Gianfigliazzi in Santa Trinità, perduti perché ritoccati a guazzo.
Dati e dubbi
L’odierno quadro in Sant’Ignazio sarebbe, dunque, il risultato di un distacco eseguito con la tecnica del collaggio? – Per ammetterlo, in mancanza di testimonianze probanti, occorrerebbe supporre verificate le tre ipotesi seguenti: 1) che nel 1626 il frammento dell’affresco sarebbe stato segato dal muro col primo metodo (allora non conoscendosi il secondo), e che l’operazione sarebbe ben riuscita; 2) che, non murato in alcun luogo, il frammento avrebbe durato sano e salvo per un secolo, fino cioè al 1726-27, data alla quale gli storici dell’arte fanno risalire la scoperta – o la riscoperta? – della tecnica del collaggio22; 3) che l’impresa, tentata dopo tale data, non avrebbe riservato sorprese, essendosi trattato di vero affresco, non di guazzo e privo di ritocchi a tempera. Dopo di che occorrerebbe spiegare: 1) come mai il quadro odierno sia a superficie piana, mentre il frammento originario certamente era a superficie cilindrica, se non addirittura sferica23; 2) e come mai sia dato rilevare tante e tali differenze figurative tra la stampa in rame, del 1571, ed il quadro odierno24. Infatti, a) nel rame, il volto è tanto profilato che le linee del naso e della bocca sorpassano quella della gota, inoltre l’occhio sinistro è appena accennato dall’arcata sopracciliare; nel quadro, invece, quest’occhio è ben visibile, e oltre la linea del naso e delle labbra si profila visibilissima la curva della gota; b) nel rame, il velo nasconde totalmente la capigliatura, indi s’innalza a becco sulla fronte, si ripiega abbondantissimo sulla nuca, cade verticalmente sulla spalla sinistra e si gonfia sul gomito sinistro; nel quadro, invece, capelli e scrina sono visibilissimi, il becco del velo non c’è, sulla nuca non ci sono rigonfiamenti, ma solo una linea tonda e morbida, sulla spalla sinistra il velo rientra ad angolo e sul gomito è sparito affatto; c) nel rame, la sinistra è al petto direttamente sulla veste, ad indicare preghiera e non a sorreggere qualche cosa, l’indice sorpassando leggermente la scollatura, priva di bordo bianco, mentre la destra si apre quasi orizzontalmente, in atto di meraviglia; nel quadro, invece, la sinistra stringe un lembo di manto, che non si sa donde venga, e la destra è quasi verticale, come per sorreggere qualcosa; d) nel rame, la testa è nimbata con un disco pieno, che termina al livello della fronte, e, oltre la figura, appaiono dei lineamenti architettonici tagliati da strie di luce raggiante; nel quadro, invece, il fondo è costituito da una luminosità indistinta, la testa è circondata dal filo di un’aureola, che scende fino al livello della bocca; e) nel rame, avanti alla Vergine c’è – e ne spiega tutto l’atteggiamento – un genuflessorio e un libro aperto; nel quadro, invece, genuflessorio e libro mancano: di qui l’atteggiamento diverso delle mani ed il quasi totale chiudersi degli occhi; f) finalmente, cintura e drappeggiamento dell’abito, tra rame e quadro, si corrispondono solo vagamente.
Una nostra proposta
Ma è anche vero che il quadro attuale, ad un esame attento, si rivela, se non proprio un affresco, almeno una patente imitazione di affresco. In effetti, quella che il telaio tende è autentica rozza e robusta tela. Su di una faccia di essa si stende uno strato, spesso dai due ai tre millimetri (troppo, in verità, per un affresco trasportato!) di gesso, stucco o altro impasto simile, il quale sostiene uno strato di colore opaco e terroso, distribuito a pennellate piuttosto larghe, tipiche dell’affresco o della pittura a guazzo. Inoltre, altrettanto vero è che le misure della figura sono notevolmente maggiori del vivo, sproporzionate dunque per un quadro d’altare di una cappella ordinaria, proporzionate, invece, ad un affresco absidale che doveva essere visto da una distanza notevolmente maggiore.
Il problema, come si vede, resta intricato ed insolubile. Per parte nostra, perciò, proponiamo un’ipotesi. Eccola.
Si sa che nel 1658 il generale Gosvino Nickel dette alla Prima Primaria, come sede più decorosa, nello stesso Collegio Romano, quella che ancor oggi è detta appunto «Cappella della Prima Primaria»; e che, in quella occasione, lo stesso generale avrebbe fatto porre sul suo altare «una copia della Madonna dello Zuccari, eseguita da uno dei fratelli Courtois — Jacques o Guillaume —», ambedue congregati della stessa congregazione25. Ora, supponendo che il quadro odierno possa dirsi in qualche modo «quella copia», ragioniamo così: o, in quell’anno 1658 l’originale frammento dello Zuccari ancora esisteva: ed allora il congregato-pittore l’avrebbe ritratto, simulando, sì, l’affresco, e conservando le misure originarie della figura, ma modificandone liberamente gli elementi compositivi, secondo la nuova situazione che la figura stessa veniva ad assumere, non più parte del mistero dell’annunciazione, bensì busto isolato (ma, in questo caso, ci domandiamo, perché il padre generale avrebbe preferito la copia all’originale, e dove mai poi l’originale sarebbe finito?); oppure l’originale, come è più probabile, non esisteva più: ed allora il pittore-congregato avrebbe ricostruito di fantasia la nostra Madonna, magari aiutato dai congregati, i quali chissà quante volte avevano contemplato il bell’affresco primitivo, abbattuto trentadue anni prima.
Nell’un caso e nell’altro, tolta, questa «copia», dopo più di un secolo, nel 1761, dalla cappella della Prima Primaria, per essere sostituita da quella che ancora oggi vi sta, proveniente dalle catacombe di S. Ermete26, e giaciuta chissà in quale ripostiglio del Collegio Romano, o di Sant’Ignazio, per centotrent’anni, finché non fu rimessa in onore dal padre Cesare de Angelis, il restauro che allora ebbe a subire finì per aumentare le troppe differenze da noi rilevate tra il rame del Cort ed il quadro odierno.
In questa ultima ipotesi, il quadro non potrebbe dirsi «un frammento dell’affresco di Federico Zuccari trasportato su tela», pur conservando con qualche ragione il titolo ed il pregio di «Madonna della Prima Primaria»; essendo in pratica quel che resta di più vicino e simile a quella cara immagine, avanti alla quale si raccolsero e pregarono, per circa sessant’anni, se non i primissimi, almeno i primi congregati mariani, dando ai papi argomento per insignire del titolo dell’Annunciazione la Prima Primaria; dell’immagine, avanti alla quale pregarono santi come Luigi Gonzaga, Giovanni Berchmans e Roberto Bellarmino; che, ridipinta da un famoso pittore-congregato, per un secolo fu venerata nella Cappella della Prima Primaria, fin quasi alla soppressione della Compagnia di Gesù; e, finalmente, che, rimessa in onore nel 1890, da settantaquattro anni è di nuovo nota in tutto il mondo come «Madonna della Prima Primaria».
* Cfr L’immeritato oblio della «Nunziata», (Civ. Catt. 1963, III, 222 ss.).
** Cfr Una scuola di apostolato dei laici (Civ. Catt. 1963, Il, 248 ss.).
1 Qui, ed in seguito, citiamo il VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, architetti, sotto la voce Taddeo Zucchero, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1856. – Le citazioni precedute da asterisco appartengono alle postille appostevi dallo stesso Federico Zuccari, in un esemplare che si trova nella Biblioteca Reale di Parigi (cfr ivi, p. 109, Nota).
2 Oltre ai tre sopra accennati – piazza S. Apostolo, guglia di S. Mauto (nelle case della marchesa della Tolfa?) e casa Margani –, vennero quelli «all’Arco di Portogallo» al Corso, «alle Botteghe scure, in certi sfondati delle stanze di Alessandro Mattei», poi un altro monte Parnaso a «messer Stefano del Bufalo, al suo giardino della Fontana di Trievi», poi ancora la facciata di una casa «in sulla piazza della dogana vicino a S. Eustachio (di cui ancora restano ben visibili tracce): al quale Federigo (allora di diciotto anni) fu ciò carissimo, perciocché non aveva mai altra cosa desiderata, quanto l’avere alcun lavoro sopra di sé»; finalmente, nel 1565 vennero i grandi lavori di Taddeo nella cappella di S. Marcello, dov’egli lavorò tutta l’estate, e quelli di Trinità dei Monti.
3 Tra gli autori inclini a questa ipotesi c’è il Villaret (p. 115) ed il Tacchi Venturi, il quale (cfr ARMELLINI-CECCHELLI, Le chiese di Roma, p. 1343), a proposito dell’affermazione del Baglione «colorì e compì (Federico) la bella opera dell’Annunciata del Collegio Romano», commenta: «È da notare il termine compì usato in proprio senso, poiché l’affresco era stato cominciato da Taddeo, fratello di Federico» probabilmente prendendo la notizia dallo Schroeder, da lui citato: «La pittura dell’abside fu cominciata da Taddeo Zuccaro e dopo la sua morte continuata e compita da suo fratello Federico».
4 Per un esauriente studio su di esso cfr RINALDI, 23-27.
5 Sembra confermare il Vasari l’incisore del rame del 1571 (del quale subito faremo parola), il quale l’attribuisce al solo Federico (opus quod... Federicus Zuccarus... perfecit), col contesto spiegando l’ambiguità del verbo perfecit. Più esplicita invece è l’affermazione di Girolamo Francino (op. cit., p. 76) nel 1600: «dipinta l’Annunciata ... fatta per disegno, et opera di Federico Zuccaro pittore eccellente».
6 Cosi, probabilmente per un refuso tipografico, il Vasari; ma giustamente Federico corregge postillando * «anni 18». Un’altra correzione, e questa gli fa veramente onore, Federico la introduce là dove il Vasari afferma che gli affreschi paolini a San Marcello sarebbero stati condotti a termine da Federico, postillando: * «gloria di Tadeo, perché Federigo quivi vi fece poco o nulla di momento».
7 Ma anche lui non doveva essere propriamente un santo, se merita lo strano elogio che continua a fargli il Vasari: «Fu sanguigno, subito, e molto sdegnoso, e oltre ciò dato alle cose veneree. Ma non di meno, ancor che a ciò fosse inclinatissimo per natura, fu temperato, e seppe fare le sue cose con una certa vergogna e molto segretamente». Perciò si spiega la nota di Federico, che postilla: * «Anzi modesto, temperato e benigno».
8 Per le sgrammaticature e l’ortografia possono bastare le sue postille da noi riportate. Un esempio di pretensione culturale è nel titolo del cap. XII della sua operetta, cosi stilato: «Che la filosofia e il filosofare è disegno metaforico similitudinario»! – Su Federico Zuccari, oltre ai commentatori delle Vite del VASARI, cfr LUIGI PUNGILBONI, in Giornale arcadico, 1832, pp. 195-221.
9 E con questo parallelo si svolge la lapide posta sul suo sepolcro al Pantheon, appunto presso quella di Raffaello.
10 VASARI, op. cit., vol. XII, p. 109, Nota. Scrisse, infatti, Federico, un suo Il passaggio per l’Italia (Bologna 1608), e, in cattiva terza rima, un libretto sul Lamento della pittura, e Lettera ai Principi e amanti del Disegno, nonché una Idea di Pittori, Scultori ed Architetti (si noti il plagio del titolo Vasariano).
11 E da alcuni anni nella Galleria delle Stampe alla Farnesina. In basso porta la dedicatoria dell’incisore: Opus quod in aede Virginis Deiparae Annunciatae Collegii Romani so(cietatis Iesu?) Federicus Zuccarus S. Angeli in Vado ad Ripas Mitauri perfecti aeneis expressus – AMPLISSIMO PATRI AC DOMINO D. ANTONIO PERRENOTTO [lacuna] CARD. GRANVELANO ARCHIEPISCOPO MECUNIENSI NEAPOLISQ. PROREGI – Romae, A.D. MDLXXI - Cornelio Cort fe. 1571. – Sul Cort, cfr THIEME-BECKER, Kunstlerlexicon, VII, 475, s.v.
12 Le parole della profezia riportate sono: In mano ad Isaia: ECCE VIRGO CONCIPIET ET PARIET FIUUM – IS. VII (Ecco, una Vergine concepirà e partorirà un Figlio, Is. 7,14). Sulle mani di Geremia: CREAVIT DOMINUS NOVUM SUPER TERRAM: FOEMINA CIRCUMDABIT VIRUM – IER. XXXI (Cosa nuova fece il Signore sulla terra: una donna conterrà un Uomo, Ier. 31,22). Nel cartiglio di Mosè: PROPHETAM DE GENTE TUA ET DE FRATRIBUS TUIS, SICUT ME, SUSCITABIT TIBI DOMINUS DEUS TUUS – DEUTR. XVIII (Il signore tuo Dio ti farà sorgere dalla tua stirpe e dai tuoi fratelli un profeta come me, Deut. 18,15); Ai piedi di David, come coronato arpista: DE FRUCTU VENTRIS TUI PONAM SUPER SEDEM TUAM – PSAL. CXXXI (Porrò sulla tua sede un discendente della tua stirpe, Ps. 131,11). In mano allo scettrato Salomone: VENIAT DILECTUS MEUS IN HORTUUM [sic!] SUUM – CANT. V (Il mio amato venga nel suo giardino, Cant. 5,1). E finalmente ai piedi di Aggeo: ADHUC MODICUM ET VENIET DESIDERATUS CUNTIS GENTIBUS – AGG. II (Ancora un poco e verrà il desiderato delle nazioni, Agg. 2,8).
13 CEPARI-SCHROEDER, op. cit., p. 393. – Negligente compendiatore dello Schroeder è l’anonimo PJ.C., che scrive: «Verso il 1549 (!?), quando la chiesa fu in parte distrutta, si poté salvare la figura di centro, ed è quell’immagine della Santissima Vergine che trovasi ora al di sopra della porta della scala che dalla Chiesa di S. Ignazio conduce alle camere dei Santi» (Rooms and Shrines, of the Saints of the Society of Jesus, trad. ital., Prato 1904, p. 34; dove, tra l’altro, si dà erroneamente la «Scaletta» come «uno dei rami della Prima Primaria»). Nel 1914, RINALDI si limita a riferire: «Di quest’affresco... ora non si conserva che il busto della Vergine, trasportato su tela, oggetto di molta devozione da parte dei fedeli» (p. 94). Del tutto fantasiosa è invece la versione del non meglio identificato P. L(orenzo?) R(occi?), S.I., che in S. Luigi (1926, nn. 6-7, p. 211) scriveva: «Il p. Cesare de Angelis, morto nel 1913, quando fu rettore della Chiesa di S. Ignazio, volle rimettere in onore la devota e bella immagine. Venne essa segata dal vecchio muro e posta sopra la porta per cui si va alle Cappellette di S. Luigi e alla Prima Primaria», quasi che il «vecchio muro» della Nunziata fosse rimasto in piedi fino alla fine del secolo passato!
14 Pag. 13. Secondo il p. Tacchi Venturi ne sarebbe autore il p. Leonardo Fava. – Da queste, crediamo, dipende il Villaret (pp. 115-116), il quale, supponendo 1) che il quadro odierno sia veramente un frammento dell’affresco, e che 2) oggi esso sia murato (?!) sopra la porta nell’interno di S. Ignazio, scrive: «L’affresco degli Zuccari cadde sotto il piccone demolitore. Però non totalmente. Dispiaceva che venisse distrutta anche la figura di Maria che ne era il centro. Con ogni sorta di precauzione (?!) fu segato il piccolo frammento di muro (più di un metro quadrato!), che la sosteneva e fu, murato (?!) sopra la porta che dall’interno della chiesa immette alla cappella della Primaria. Un’eccellente copia di questo frammento fu eseguita... e posta dal padre generale Gosvino Nickel, nel 1658, sopra l’altare della cappella da lui concessa alla Congregazione (entro il Collegio Romano), dove restò per più di un secolo».
15 Sul distacco degli affreschi, cfr, specialmente, in Antologia (Firenze 1825, vol. 18, n. 52, pp. 1-9); G. SECCO-SUARDO, Manuale... del ristoratore dei dipinti, Milano 1866; U. FORNI, Manuale del pittore restauratore, Firenze 1866; PREVIATI, voce Affresco, in Enciclopedia Italiana Treccani.
16 Sotto le voci Domenico Ghirlandaio e Sandro Botticelli.
17 PREVTATI, op. cit.
18 A. ZUCCHI, Roma domenicana, I, p. 229; II, p. 84. – Santa Caterina da Siena mori in una casetta che è avanti alla chiesa di Santa Chiara.
19 G. SECCO-SUARDO, op. cit., § 187.
20 Il distacco fu eseguito da Domenico Succi, sotto Leone XII (1823-1829).
21 Nell’affresco il processo di fissazione del colore avviene cosi: la calce spenta: Ca(OH)2, che è nell’intonaco, per azione dell’anidride carbonica CO2 che è nell’atmosfera, forma carbonato di calcio CaCO3, il quale, per il suo fortissimo potere adesivo, fissa alla parete il colore che vi si deponga prima che sia iniziato il processo di carbonatazione. Perciò l’artista deve ogni giorno preparare lo strato d’intonaco fino, su cui deporre il colore, e gettare giù la sera l’intonaco, scontornando quando è stato dipinto; ed è obbligato, inoltre, a lavorarvi rapidamente e senza pentimenti, a differenza del guazzo e della tempera, tecniche nelle quali l’adesione delle terre all’intonaco è affidata a collanti di vario genere, con cui si impastano. L’insolubilità dei colori essendo il vantaggio principale dell’affresco, la sua tecnica è particolarmente indicata per pitture negli esterni – ove occorra resistere all’azione dell’umidità, del vento e della polvere –, e meno negli interni. I ritocchi, a guazzo o a tempera, poi, negli affreschi sono spesso una necessità in artisti non consumati nella pratica, date le forti differenze di tono e d’intensità che i colori assumono da quando sono bagnati a quando asciugano. Avrà evitato questo comune ripiego il giovane e veloce Federico Zuccari, per giunta se aiutato da altri lavoranti? – (Per la tecnica pittorica, cfr G. PREVIATI, La tecnica della pittura, Torino 1923. Più antichi sono A. POZZO: Istruzione per dipingere a fresco, che fa parte della sua opera sulla prospettiva, e ARMENINI, Veri precetti della pittura, Ravenna 1587). Lo Zuccari, però, la tecnica del ’500 e la pratica corrente in Italia fin da Giotto, le poteva trovare nel classico: CENNINO CENNINI, il Libro dell’arte, scritto probabilmente nel 1437.
22 Attribuita ad Antonio Contri (1650-1732), per quanto il CICOGNARA (op. cit., p. 6) affermi che, prima di questi anni, a Napoli si erano staccati affreschi senza segare il muro.
23 Cilindrica, nella supposizione che la figura della Madonna occupasse solo la superficie dell’abside sotto del catino vero e proprio; sferica se, come più probabile, rientrava in esso. Si intuisce come, se è ancora relativamente possibile, con la tecnica del collaggio, ridurre a superfici piane affreschi cilindrici, soprattutto se il raggio di curvatura sia molto ampio, sia assolutamente impossibile ottenerlo con una superficie sferica senza irrimediabilmente rovinare l’affresco: o diradando verso i lati la superficie colorata, o condensandola al centro, soprattutto quando il raggio di curvatura sia piuttosto ridotto. Ora, nel caso dell’affresco dello Zuccari, partendo dalle misure della Nunziata date sopra, il raggio doveva essere compreso tra i metri 3,86 e 3,20; ne segue, che, misurando il quadro attuale metri 0,97 di base, metri 1,16 di altezza e metri 1,54 di diagonale, considerando queste lunghezze come altrettante corde di una calotta sferica generata dai raggi indicati, lo stesso quadro, che invece risulta perfettamente piano, dovrebbe segnare le frecce di cm. 3,1-3,2 nella base, di cm. 5-5,3 nell’altezza e di cm. 7,7-9,1 sulla diagonale.
24 Non abbiamo, infatti, alcuna ragione di dubitare della fedeltà del rame all’originale, data l’eccellente valentia del Cort e la circostanza che, con tutta probabilità, dovette vederlo e controllarlo lo stesso Federico Zuccari.
25 VILLARET, p. 116. Com’è noto, Jacques si fece gesuita nel 1657. (Sui fratelli Courtois, noti in Italia più comunemente come Fratelli Cortese, oppure Fratelli Borgognoni, cfr, oltre THIEME-BECKER, op. cit., s.v. Courtois, il più recente: Fr. Alb. SALVAGNINI, I pittori Borgognoni, Roma 1937).
26 VILLOSLADA, p. 302; VILLARET, ivi. – La cosa si esegui per iniziativa del padre Giuseppe Mazzolari, più noto sotto lo pseudonimo di Mariano Partenio, che narra la sua impresa nel suo forbitissimo latino in: IOSEPHI MARIANI PARTHENII SJ., Epistolae (Roma 1863, lib. IV, ep. nn. 3 e 9).