NOTE
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1 Deus, qui inter cetera sapientae tuae miracula, etiam in tenera aetate maturae sanctitatis gratiam contulisti ...: fa dire la Chiesa nell’Oremus del diciottenne Stanislao Kostka, che fino al 1950 era il più giovane tra i santi o beati confessori. Oggi egli superato dal beato Domenico Savio, quindicenne.

2 L’albero che non muore. Note biografiche e pagine scelte dagli scritti di GIANFRANCESCO TAGGI S.I. (1919-1945), Roma, Signorelli, 1953, in-16°, pp. !104.

3 Giulio Cesare FEDERICI S.I., La breve storia di un giovane gesuita: P. Sergio Tognozzi, Alba, Edizioni Paoline, 1953, in-8°, pp. 100.

4 Con la consueta acutezza d’indagine il TAGGI, in Jesus Christus (p. 101 e ss.) rivela il passaggio da lui avvertito e voluto da un «ideale di volontà robusta... di umanità forte e logica» all’altro superiore, ed unico valido su piano soprannaturale, del trinomio ignaziano «conoscere intimamente Cristo, per amarlo sempre più ardentemente e imitarlo sempre più fedelmente» (Exercitia spiritualia, 11. 104).

5 Exercitia spiritualia, nn. 91 ss., 230 ss.

6 Al fratello Max, che si preparava a seguirlo nella Compagnia di Gesù, il 7 ottobre 1942, Gianfranco scriveva: «... sono sicuro che in Compagnia avrai la netta impressione di essere al tuo posto. Ma sono cose che non si capiscono subito interamente: ogni anno che passa si gusta di più questa gioia profonda e inalterabile di essere tutti del Signore, nella sua Compagnia. Parrà strano: ma in sette anni, io non ho avuto la minima tentazione contro la vocazione! Per me è una prova di più per l’esistenza del soprannaturale: perché non mi pare naturale che un uomo si trovi perfettamente contento di una posizione, che in fondo ha le sue prove e le sue giornate buie...» (pp. 124-125); e il 13 dicembre dello stesso anno: «Si avvicina il gran giorno. La grandezza di questo giorno si comprende pian piano, ogni anno di più, fino all’ultimo giorno: ma chi ha compreso la vocazione, ha una specie di presentimento di questo graduale attaccamento a una veste, che il mondo disprezza. Carissimo fratello, tu aspetti molto dalla vita religiosa: avrai immensamente di più di quello che puoi immaginare. Non solo nell’ordine naturale, nel quale si avvera per noi a puntino la promessa di Gesù: ma soprattutto nell’ordine dello spirito. In sette anni non ho avuto un solo attimo di esitazione sul passo fatto; ma dir questo è nulla: bisognerebbe che ti facessi sentire quel senso profondo, benefico, di totale e spirituale soddisfazione nel sentirmi addosso questa veste benedetta, nel pensare che sono tutto di Gesù, e destinato soltanto a diffondere il suo Regno. La gioia di essere tutto suo, la gioia di riceverlo ogni mattina nell’Eucarestia, gioia di essere un futuro apostolo, la gioia di potermi sacrificare per lui: che potrei desiderare di più?» (pp. 126-127).

7 Exercitia spiritualia, nn. 167-168.

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Articolo estratto dal volume III del 1953 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Si può affermare che, di regola, ci vuole tempo per diventare grandi santi; che cioè il sommo Santificatore, il quale di potenza assoluta potrebbe sollevare le anime di punto in bianco ai fastigi più alti della santità, di provvidenza ordinaria lo fa gradualmente e, si direbbe, lentamente; e con ciò autorizza la Chiesa a parlare di miracolo quando una matura santità venga raggiunta da un santo confessore nel fiore degli anni1.

Questo modo ordinario di procedere di Dio non sempre è messo in rilievo nelle vite dei santi, le quali, prendendo in esame gli agiografati dalle ultime scene dalle loro vita, quasi riverberati dalla matura santità da loro raggiunta appunto in età avanzata, se non addirittura in vecchiaia, con un inavvertito fondere di prospettive velano al lettore il lungo tirocinio che di regola l’ha preceduta, sicché gli vengono a mancare gli elementi per un giudizio, si direbbe, stratigrafico della loro ascesa alla perfezione.

A siffatta sfocata prospettiva più facilmente sfuggono le biografie, numerosissime oggi, di fedeli, che forse non raggiungeranno mai il titolo ufficiale di santi o di beati, e pur si ritrovano tanto ricchi di virtù da farli degni della nostra considerazione, ammirazione e imitazione; le quali vite, poi, tra l’altro, possono avere il pregio d’avviare verso mète da mezza costa non pochi lettori, per il fiato corto dei quali le cime isolate e i cammini di sesto grado parrebbero troppo ardui.

* * *

Tra le pubblicazioni di questo genere ne presentiamo due recentissime, su due giovani religiosi, di non ampia mole, ma di vivido interesse in se stesse e ancor più se lette e ponderate insieme. La prima, L’albero che non muore2, presenta il ventiseenne Gianfranco Taggi, nato nel 1919, e morto, ancora studente e non sacerdote, nel 1945; l’altra, La breve storia di un giovane gesuita3, verte sul trentatreenne p. Sergio Tognozzi, nato nel 1916 e morto sacerdote nel 1949.

Pari nelle due vite è lo scarso rilievo degli avvenimenti esteriori. Tutti e due educati cristianamente in ottime famiglie e in ambienti complementari di collegio o di congregazione mariana diretti dalla Compagnia di Gesù; in tutti e due lo sbocciare della vocazione religiosa nella matura adolescenza dei loro diciassette anni; per tutti e due il normale curricolo di formazione dei gesuiti: noviziato, carissimato, filosofia e magistero...: qui troncato per Gianfranco, ma continuato per Sergio nella teologia e nel terz’anno di probazione. Fanno solo eccezione: per il primo: una disputa pubblica di tutta la filosofia con cui egli chiuse brillantemente il suo corso all’università Gregoriana, avvenimento certo non ordinario nella vita di uno scolastico; e per il secondo, la fulminea morte incontrata nell’ascendere la Cima Uno in Val Fiscalina, sùbita e tragica fine della sua dinamica virilità. In definitiva, però, elementi tutti d’interesse episodico, rispetto all’opera di santificazione sommamente vigorosa, sia pure solo abbozzata, da loro intrapresa.

Le grandi linee ne sono date nei cenni biografici che aprono i due volumetti; lo sviluppo, dagli scritti intimi dei biografati: diari e lettere. Oh, l’impressione che nel leggere queste pagine prova chi, avendoli conosciuti e frequentati, vede riaffiorare da esse, vivide e fresche, le due immagini fraterne che gli anni trascorsi dalla dipartita, eppur tanto pochi, già cominciano a velare e a dissolvere! Quale sorpresa nel poter entrare nell’intimo della loro anima, pervia, loro viventi, solo all’occhio e alla mano del padre spirituale, e ritrovarvi, accentuate e distintissime, tutte le sfumature che distinguevano due anime, sotto molti aspetti gemelle, ed improntavano i tratti anche del loro aspetto fisico. Dietro l’occhio dolce, la bocca sorridente e i tratti morbidi di Gianfranco Taggi si ritrovano le sue caratteristiche di ragazzo riflessivo, ordinato, in ideale equilibrio di giudizio e di espressione; ma un po’ timido e ritirato, come distaccato da una vita troppo precocemente per lui ricca di strettezze e di dolore, e, insieme, ad essa attratto per la sua mente lucidissima e la sensibilità acutissima e delicata, che lo faceva fortemente vibrare ad ogni espressione di bellezza, di ordine, di ritmo, la trovasse egli nelle idee, nei volti o negli spettacoli della natura. Ordine e metodo di consapevole equilibrio che normavano anche la sua vita interiore spirituale: egli conobbe il male e se ne difese, avvertì i lati meno buoni del suo carattere e s’adoprò per correggerli; si sentì qualche volta a disagio con se stesso e con gli altri e fece di tutto per migliorarsi; con generosità, con inflessibile continuità, ma, tuttavia, con dolce e lunga pazienza verso se stesso prima che con gli altri, senza mostrare lo sforzo, anche quando s’accorse che, prima dalla faticosa malattia e poi dalla morte inopinata, gli venivano troncati in uno la giovane vita e gli ideali umani e soprannaturali, appena intravisti e già molto amati.

L’occhio indagatore, la bocca serrata e i tratti recisi di Sergio Tognozzi concordavano col suo carattere impulsivo, dinamico, vivace e comunicativo; che lo fece meno ripiegato su se stesso e più teso al futuro, organizzatore ardito della sua vita, insofferente di soste, battagliero contro ogni borghesismo, sempre aggressivo, anche nell’ascesa della santità, nella quale ricorse a mezzi che denotano generosa dedizione, ma anche fretta di realizzare, come per un innato spirito di competizione sportiva. Suo è il voto fatto a diciassette anni, e rinnovato settimana per settimana fino alla morte, di non commettere peccati veniali deliberati, e l’altro, messo a punto nella sua maturità religiosa durante il terz’anno, di ricercare sempre la volontà di Dio su ogni minimo particolare della sua attività quotidiana, così consacrando definitivamente una condotta praticata da lui già da diversi anni. Pur nella sua generosità, Gianfranco Taggi, probabilmente, a mezzi di siffatta vigoria non avrebbe mai fatto ricorso.

Queste nette differenze, che informano anche lo stile letterario dei due: concentrato, lineare, introspettivo, descrittivo e rifinito il primo; critico, disuguale, impulsivo ed estroflesso il secondo, piacciono al lettore che vi vede come la grama non solo non distrugga la natura, ed anzi l’accolga migliorandola e producendo con essa tutte le infinite variazioni che fanno bello il mondo dei santi non meno che quello della natura, ma che neanche la distrugge la formazione religiosa propria dell’ordine di cui i due fecero parte. Comuni, infatti, furono ai due tutti i suoi mezzi di formazione: luoghi, superiori, maestri, compagni, libri, pratiche spirituali e svaghi: eppure non si avverte in essi quel livellamento di valori umani personali che anche qualche amico reputa pregio della formazione «a stampigliatura» della Compagnia di Gesù, mentre i suoi nemici gliel’imputano ad argomento di disumana potenza, non escluso il disgraziato transfuga, il quale comune e contemporanea ai due biografati ebbe e la vocazione e la formazione che oggi ha tradito e vilipende.

* * *

Però più numerose e più accentuate delle differenze somatiche e di temperamento sono tra i due le coincidenze nel tipo di santità; le quali si spiegano, sì, con l’identità della stessa grazia divina che li lavorò, ma anche con lo stesso comune istituto umano che li educò e che di quella grazia fu mezzo e strumento; sicché possiamo dire che, se dai frutti si conosce l’albero, le poche pagine di queste due biografie rivelano più «segreti» sui gesuiti e sul loro istituto che non molti volumi dell’immensa letteratura che li riguarda a loro esaltazione o a vituperio.

Intanto appare evidente in tutti e due la serietà con cui impostano e perseguono il loro lavoro di santificazione: pari è l’impegno nel ricercare l’unione con Dio nella preghiera, nel frugare senza riposo e nel rettificare i motivi delle loro azioni e nel purificarli dalle scorie di intenzioni viziate o meno rette; nel cercare i propri difetti e nel perseguirli sistematicamente, nel ritornare sui propositi fatti per controllarne l’osservanza e ringiovanirne l’interesse e il dinamismo; nell’esercitarsi nelle virtù meno appariscenti di carità fraterna, di umiltà e di nascondimento, di ubbidienza e di distacco, di regolarità nel monotono giro delle giornate sempre uguali. Ed è parimente evidente che siffatto lavorio non è in loro una prestazione istintiva di autodidatti o di dilettanti, ma risponde a un piano ben concreto da loro cercato, trovato ed accettato: un piano nel quale, chi appena conosca qualche cosa del genere di vita da loro seguito, non dura ad individuare le grandi linee degli Esercizi spirituali, testo e codice della spiritualità della Compagnia. Nei due, non una traccia di morale astratta, fredda, militare, fondata solo sulla disciplina, sul dovere, o sullo spirito di corpo4; tutto si fonda su convinzioni interiori, collegate in una costruzione solida, stabile, luminosa, nella quale s’inseriscono appagate tutte le esigenze della ragione e della fede, vivificate poi da un calore di passione, di vera passione giovanile, per una persona concreta: Gesù Cristo.

Si legga la Preghiera della sofferenza e Gesù mi ha affascinato..., poste come appendice agli scritti del Tognozzi; si leggano Il secondo voto e Dare molto a tutti (pp. 141 e 143) del Taggi: forse, chi non fosse uso a siffatte espressioni potrà provarne sorpresa, e chi fosse abituato a trovarle solo in romanzi sentimentali di amore umano sarà portato a giudicarle fenomenale montatura letteraria: eppure non sono altro che espressione di effettivo amore per Gesù Cristo, da loro avvicinato nella meditazione del Regno e servito sulla linea della meditazione ad amorem.

Appunto questo fuoco interiore, questa vita vissuta in un impegno personale, che li legava indissolubilmente avanti a Dio e rispetto alla loro coscienza, li sosteneva anche nell’osservare le regole e consuetudini più minute della vita religiosa e nell’edificare col comportamento esteriore. Non è; escluso che qualcuno, all’oscuro di quanto si svolgeva nelle loro anime, o, peggio, guidato dal pregiudizio che passa la perenne correttezza esteriore per sinonimo di «gesuitismo», abbia giudicato la loro virtù, facile decoro di facciata, etichetta imposta d’ufficio o, più crudamente, ipocrisia; ma quanto in contrasto con la realtà che balza oggi dai loro appunti intimi!

Nel marzo del 1941, nell’ufficio di sorvegliante degli alunni dell’istituto Massimo di Roma, il Tognozzi scriveva:

L’idea che più mi ha colpito in questi giorni è l’idea del propagandista... del sorriso. Essere perciò sempre in servizio di propaganda. Faccia larga, sorridente, con tutti. Vero è che fino a che sono prefetto in esercizio delle mie funzioni non posso essere sempre con quella faccia; ma che si noti però che appena posso tornare alla mia solita (Dio volesse) faccia sorridente, lo faccio con tutta soddisfazione. Altre volte ho pensato che il proposito di sorridere sempre è, se mantenuto, un proposito eroico e sanguinoso. Amor di Dio e amor del prossimo, spirito di fede e clima di amore devono essere sempre presenti e sempre operare per dare alla faccia quell’aspetto sorridente e alla personalità quel modo di fare d’irradiante felicità e ottimismo. Le potenti energie vitali per ottenere quest’atteggiamento e questa personalità vanno ottenute nelle cose spirituali, soprattutto nel contatto con Gesù Eucaristico. Io credo che il solo fatto di starsene fermi in ginocchio davanti al tabernacolo... significhi immagazzinare energie ricchissime di quella forza vitale necessaria per ottenere il perpetuo sorriso, la perpetua felicità: sono tutte calorie che penetrano a getto continuo nella nostra personalità spirituale e che poi svilupperanno tutto il calore o almeno tutta l’energia necessaria per arrivare a quella forma di propaganda (pp. 50-51)5.

Due anni dopo, anch’egli addetto al «magistero», e perciò anch’egli in condizione di edificare le anime per la prima volta commessegli in cura, il Taggi meditava:

Io non concentrerò i miei sforzi nell’intento di «dare edificazione»; temerei di trovare sul tuo volto adorabile quell’espressione dura che dovettero trovarci i farisei, quando smascherasti la loro devozione vanitosa ed ipocrita. Non sarò «edificante a tutti i costi», perché tu mi vuoi semplice, umile, sprezzante dell’altrui ammirazione...: receperunt mercedem suam! Allora? Allora mi sforzerò generosamente di amarti, di combattere per te ogni male, di progredire nella virtù, di lavorare seriamente, di pensare sempre al giorno del nostro incontro. Procurerò di essere fedele anche a quelle regole che non sono mai riuscito a osservare bene: Et ego semper tecum! Avrò il culto della giustizia, che consiste nel dare a ciascuno il suo, quel che gli spetta. Onorerò i superiori e i più anziani, perché loro spetta l’onore e l’obbedienza; rispetterò e amerò i miei fratelli, perché ognuno di loro si merita tutto il mio rispetto l’amore fraterno; tratterò con somma delicatezza, bontà, comprensione i miei alunni, perché rientra nel loro più sacro diritto. Così intendo il cercarti, o mio Gesù; e in questo spero di trovarti. E se ti troverò, avrò la pace profonda del cuore, e il mio lavoro non sarà di danno ad alcuno, né inutile... (p. 149).

Altro particolare in cui i due vibrano in sintonia perfetta è la contentezza con cui vivono la propria vocazione e il loro stato di religiosi. Non c’è in essi un’ombra di rimpianto per quanto il mondo potesse loro offrire di bello e di gradevole! Eppure non l’ignoravano il mondo, ed ogni giorno con più chiarezza lo scoprivano e lo sapevano da loro definitivamente abbandonato. L’oggetto ideale della vita religiosa, ragione della loro scelta, è sempre loro presente, già conquistato per la parte posseduta, e come termine di dinamica tensione per la parte che via via si andava delineando loro innanzi. Tutti e due, sapendolo, costruendosela con le loro mani, vivono intensamente la loro giovinezza, nella certezza sperimentata che la vocazione, quella vocazione, era un dono magnifico; sono perciò contenti della loro sorte come è raro trovare tra i giovani, e non giovani, che abbiano raggiunto nel fidanzamento o nel matrimonio l’amore tanto atteso. Gianfranco Taggi novizio scriveva così:

Adesso indosso questa santa, questa gloriosa, questa amatissima uniforme: ho trovato quello che cercavo; ho trovato un incendio in cui gettare la mia piccola scintilla per poter gridare: io sono un incendio! L’incendio dell’amore di Cristo, quell’incendio che il Verbo Divino è venuto a portare sulla terra, e che ha consegnato alla sua minima Compagnia, affinché lo dilati in tutto il mondo. Come Gesù, la Compagnia esclama: lgnem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur? Questo esercito è vivificato, è animato dal fuoco divino. Le sue fortezze, piantate qua e là nell’orbe, sono centri e sorgenti di questo fuoco che illumina ed arde. Ogni soldato attinge la sua fiamma, e con essa assalta le folle. Da quattro secoli i figli d’Ignazio cercano di moltiplicare sempre più queste fiaccole nell’umanità, di renderle fitte come le stelle del cielo. Il loro desiderio, la loro ambizione è questa: che tutto il mondo avvampi di questo fuoco divino, e possa finalmente confondersi in quella fornace ardente di amore che è il Cuore santissimo di Gesù. Solo allora il cuore del gesuita non avrà altro da desiderare sulla terra, ed il soldato vittorioso passerà felice a raggiungere il divino Capitano nel regno eterno della gloria e della pace (pp. 75-76)6.

E Sergio Tognozzi, e per ringraziare il Signore alla fine della giornata, s’era composta questa preghiera:

«Signore, io ti ringrazio della vita che mi hai dato, della mia vita... Com’è bella! Tu mi hai fatto felice: tu!... – Ti ringrazio di questa giornata che ho potuto spendere tutta per la tua causa. Tu hai lasciato indietro tanti più buoni di me e hai chiamato me vicino a te. Tu sei apparso nella mia vita; ed è stata la luce che è entrata a torrenti: i problemi più angosciosi che tormentano tanti uomini, tu me li hai risolti con la più luminosa e la più calda spiegazione: e hai voluto che diventassi io stesso elemento di luce e di calore... Nella tua infinita bontà hai permesso che io mi dedicassi tutto, anima e corpo, alla causa del tuo regno, a quest’unica rivoluzione che non conosce fallimenti, a quest’unica battaglia che non conosce sconfitte... – Signore perché proprio a me tanta felicità? – Soprattutto del nostro amore, la cosa più bella e preziosa della mia vita, Signore Gesù ti ringrazio: del nostro amore dolcissimo e delicato, appassionato e violento, profondo e misterioso; del nostro amore più forte di qualsiasi ostacolo, del nostro amore che la morte non spezzerà, ma compirà e appagherà totalmente!» (p. 46).

* * *

Tutti e due si preparavano alla vita che li attendeva, di espansione e di conquista; e in attesa che terminasse il periodo di lunga formazione non giudicavano assurdi o irreali i più ardimentosi progetti. Ma anche qui, quale delusione per chi si attendesse di trovare come pungolo di ansie e di desideri, di sogni e di sospiri una non so qual anonima gloria personale o dell’ordine! Le loro pagine intime spesso ritornano ad effetti e ad aspirazioni del più genuino terzo grado d’umiltà7.

Nell’Epifania del ’43 il Taggi, allora ventiduenne, chiede al suo provinciale, per la seconda volta, la grazia di partire missionario per la Cina, ed enumera le ragioni che lo spingono al grande passo:

Primo, dunque, la considerazione che in provincia il regno di Cristo è propagandato da tanti apostoli, da tante opere, mentre in Oriente da pochissimi sacerdoti, quasi niente in confronto dei bisogni. – Secondo, il pensiero che un atto simile avrà valore decisivo nella mia santificazione. – Terzo, il pensiero che in missione non avrò preoccupazioni di ambizione, di notorietà, di nobiltà morale. – Quarto, il pensiero che in Cina si sta peggio, e la mia tendenza a unirmi a quelli dei miei fratelli che stanno materialmente peggio. Supplico quindi vostra riverenza a prendere in considerazione questa mia aspirazione, a concedermi appena sia possibile la grande grazia di diventare missionario, e immolarmi a Cristo, alla diffusione del suo Regno. La invito umilmente a riflettere che un gran che in provincia non lo potrò fare, e che in Cina ogni operaio di buona volontà può fare miracoli per allargare i confini del regno di Cristo e per convertire quei paesi pagani (p. 106).

Più lirico, ma non meno generoso, il p. Tognozzi, ancora studente, pregava così:

Signore, io ti voglio amare: dammi il tuo amore; ma nel mio amore per te togli la ricerca della mia soddisfazione, della mia ricchezza, del mio benessere; togli la ricerca del gusto dato dalle tue ricchezze, dalle tue gioie. Fammi abbandonare, ti prego, questo mio essere così borghese e così volgare. E dammi nel mio amore per te la ricerca di te povero in un annientamento totale, umiliato, sofferente nel fisico e più ancora nello spirito; e dammi di appagare così il desiderio di te, di te solo, diventando anch’io povero, umiliato, sofferente nel corpo e nello spirito, per restare vicino a te, in silenzio (p. 30).

Questa spigolatura negli scritti dei due resterebbe troppo incompleta se ci sfuggissero due lettere, preziose e per le occasioni patetiche in cui furono scritte e per i teneri affetti familiari che dimostrano essere rimasti negli animi delicatissimi dei due religiosi. Esse forse saranno una sorpresa per molti, che suppongono chissà quale opposizione tra le esigenze dell’amore divino nella santità, e quelle dell’amore umano negli affetti familiari. La vigilia della sua ordinazione sacerdotale il p. Tognozzi scriveva:

Cara mamma, è questa l’ultima lettera che il tuo figliuolo ti scrive prima del grande giorno. Quando ci rivedremo, mancheranno poche ore alla mia consacrazione sacerdotale, e non avrò certo modo di esprimerti allora quello che in questi momenti il mio cuore prova per te. Voglio perciò esprimerti ora tutta la mia gratitudine e tutto il mio immenso affetto per te. Sono passati trent’anni e un mese da quando tu mi prendesti la prima volta tra le braccia; e questi trent’anni sono stati un tessuto fitto e continuo della tua bontà e del tuo affetto per me. Io a diciassette anni non ho più usufruito, è vero, degli affetti materiali delle tue cure e del tuo lavoro, ma mi sono sentito sempre al centro delle tue preoccupazioni spirituali e delle tue preghiere. Così la mia vita fisica prima e quella spirituale poi è stata costruita in gran parte da te; quest’ultima non direttamente come quella fisica, si capisce; chi fa tutto in questo ordine è Gesù Cristo: ma le sue grazie e la sua azione sono state meritate dalle preghiere e dai sacrifici di chi mi ha voluto bene. E chi è che mi ha amato più di te? Perciò quel giorno, che sarò consacrato al Signore, sarò proprio un figliolo tutto tuo, tutto fatto da te, dal tuo corpo e dal tuo spirito. E così tu offrirai al Signore una cosa veramente tua, ci sentiremo uniti come una cosa sola... Già il giorno dell’ordinazione e quello della prima messa tu e babbo sarete i primi nomi che avrò sulle labbra e nel cuore... Ma anche dopo nella messa quotidiana, tu e babbo sarete presenti alla mia intenzione. Così all’altare si manterrà quell’unione di mente e di cuore che c’è sempre stata fra me e te e aumenterà divenendo l’unione di due membri dello stesso organismo, l’unione del mistico corpo di Cristo. (pp. 31-32).

A sua volta, l’antivigilia della morte, Gianfranco Taggi scriveva due lettere: le ultime. La prima ai suoi piccoli crociati della Cidros:

Carissimi piccoli della Cidros, siate sempre fedeli alla vostra magnifica missione, e un giorno proverete quanto sia facile anche morire ripetendo Regna Cuore Divino, Tutto per Te Cuore Divino;

la seconda alla mamma:

Carissima mamma, mentre pieno di serenità e di fiducia in Gesù, lascio questa povera terra, il mio ultimo pensiero è per te. Che Gesù ti dia tanta rassegnazione e coraggio. Un giorno non lontano saremo insieme per sempre con Dio. Tuo aff.mo Gianfranco.

Poche righe che non si sa se ammirare più per la loro semplicità di forma o per l’altissimo valore morale del morente che le scrisse. Leggendole, non si può non ammirare e non commuoversi, e così, con questi sentimenti, chiudere, come dopo una meditazione, le due biografie.

* * *

Ora continueranno a passare gli anni dalla loro mesta dipartita, e inesorabilmente il tempo continuerà a velame le immagini fino a dissolverle in un ricordo appena distinto; e poi, anche questo passerà, fino al giorno in cui Dio ci riunirà in una nuova realtà, definitiva, ai fratelli coi quali conversammo e trattammo. Ma nell’attesa fiduciosa, ci fa bene riandarne i tratti. In tanta mediocrità di ideali e di vita che annebbia il mondo fa bene ammirare chi ha rischiato e ha osato senza contare; tra tanto salire di delusioni e di rimpianti in uomini vinti dalla vita, piace incontrarsi con uomini arditamente giovani e santamente ottimisti. La loro vita e i loro scritti, più che ricordo di persone care che ci hanno preceduto, sono stimolo a ben fare; a compiere in noi, uomini contesi e divisi, quell’unione che i santi fecero nella loro vita, non resistendo, anzi cooperando con fervore al piano per essi disegnato da Dio.

 

1 Deus, qui inter cetera sapientae tuae miracula, etiam in tenera aetate maturae sanctitatis gratiam contulisti ...: fa dire la Chiesa nell’Oremus del diciottenne Stanislao Kostka, che fino al 1950 era il più giovane tra i santi o beati confessori. Oggi egli superato dal beato Domenico Savio, quindicenne.

2 L’albero che non muore. Note biografiche e pagine scelte dagli scritti di GIANFRANCESCO TAGGI S.I. (1919-1945), Roma, Signorelli, 1953, in-16°, pp. !104.

3 Giulio Cesare FEDERICI S.I., La breve storia di un giovane gesuita: P. Sergio Tognozzi, Alba, Edizioni Paoline, 1953, in-8°, pp. 100.

4 Con la consueta acutezza d’indagine il TAGGI, in Jesus Christus (p. 101 e ss.) rivela il passaggio da lui avvertito e voluto da un «ideale di volontà robusta... di umanità forte e logica» all’altro superiore, ed unico valido su piano soprannaturale, del trinomio ignaziano «conoscere intimamente Cristo, per amarlo sempre più ardentemente e imitarlo sempre più fedelmente» (Exercitia spiritualia, 11. 104).

5 Exercitia spiritualia, nn. 91 ss., 230 ss.

6 Al fratello Max, che si preparava a seguirlo nella Compagnia di Gesù, il 7 ottobre 1942, Gianfranco scriveva: «... sono sicuro che in Compagnia avrai la netta impressione di essere al tuo posto. Ma sono cose che non si capiscono subito interamente: ogni anno che passa si gusta di più questa gioia profonda e inalterabile di essere tutti del Signore, nella sua Compagnia. Parrà strano: ma in sette anni, io non ho avuto la minima tentazione contro la vocazione! Per me è una prova di più per l’esistenza del soprannaturale: perché non mi pare naturale che un uomo si trovi perfettamente contento di una posizione, che in fondo ha le sue prove e le sue giornate buie...» (pp. 124-125); e il 13 dicembre dello stesso anno: «Si avvicina il gran giorno. La grandezza di questo giorno si comprende pian piano, ogni anno di più, fino all’ultimo giorno: ma chi ha compreso la vocazione, ha una specie di presentimento di questo graduale attaccamento a una veste, che il mondo disprezza. Carissimo fratello, tu aspetti molto dalla vita religiosa: avrai immensamente di più di quello che puoi immaginare. Non solo nell’ordine naturale, nel quale si avvera per noi a puntino la promessa di Gesù: ma soprattutto nell’ordine dello spirito. In sette anni non ho avuto un solo attimo di esitazione sul passo fatto; ma dir questo è nulla: bisognerebbe che ti facessi sentire quel senso profondo, benefico, di totale e spirituale soddisfazione nel sentirmi addosso questa veste benedetta, nel pensare che sono tutto di Gesù, e destinato soltanto a diffondere il suo Regno. La gioia di essere tutto suo, la gioia di riceverlo ogni mattina nell’Eucarestia, gioia di essere un futuro apostolo, la gioia di potermi sacrificare per lui: che potrei desiderare di più?» (pp. 126-127).

7 Exercitia spiritualia, nn. 167-168.

In argomento

Chiesa

n. 2484, vol. IV (1953), pp. 694-697