NOTE
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1 E. MORIN, Per uscire dal ventesimo secolo, Lubrina, Bergamo 1989, 320, L. 38.000.

2 Anteriori, cioè, agli anni 1980-81, come l’Autore precisa nelle pp. 15 e 16.

3 Di recente, a chi – riferendosi al suo noto studio L’esprit du temps (cfr Civ. Catt. 1964 III 248) – gli domandava: «Come vede lo Spirito dei tempo futuro?», il Morin rispondeva: «Non sono profeta [...]. Oggi stiamo attraversando una crisi multidimensionale, e quando ci si è dentro i pronostici diventano aleatori. Ciò che importa è prendere coscienza dell’esistenza di questa crisi» (cfr E. GUICCIARDI, C’era una volta Woodstock, in la Repubblica, 11 aprile 1989).

4 L’elenco, quasi completo, viene riportato nei risvolti anteriori dei due suoi volumi La Méthode, vol. I: La Natura de la Nature; vol. II: La Vie de la Vie (Seuil, Paris 1980). Tra i titoli, oltre agli otto di sociologia contemporanea, uno è sul cinema, due, rispettivamente, di politica e di giornalismo, e quattro di antropologia fondamentale.

5 Oltre ai due: titoli citati La natura della natura e La vita della vita, leggiamo tra gli altri: «Saper pensare il proprio pensiero» (p. 113), «Per sapere, dobbiamo anzitutto sapere il modo in cui riusciamo a non sapere» (p. 168), «L’errore di ignorare l’errore» (p. 181), «Lo stesso dubbio critico deve essere soggetto al dubbio e alla critica» (p. 185), «Faccio vivere la verità che mi fa vivere» (p. 186), «Smettiamoci d’ingannarci se vogliamo che smettano d’ingannarci» (p. 189), «Consente di mascherare la stessa maschera» (p. 191).

6 Denunciando come indebitamente semplicizzanti i nuclei di certe teorie, dottrine o ideologie, alla p. 101 scrive: «Esisteva, ad esempio, un nucleo centrale della filosofia tomista medievale. Questo collegava l’esistenza della rivelazione, i paradigmi aristotelici e la logica che da essi derivava per ogni aspetto del mondo. Ne conseguiva che ogni osservazione o esperienza non compatibile con la dottrina non poteva essere altro che inconsistente e irrazionale. Il nucleo centrale delle dottrine è evidenza/coerenza» (cfr anche, su Aristotele e il Medioevo, pp. 134 e 241).

7 E verso la fine del volume affermerà: «La nostra conoscenza scientifica può intendere soltanto azioni ben specifiche, e non riesce a comprendere né l’autonomia, né il soggetto, né la coscienza, né la responsabilità. A questo livello la nozione di responsabilità non ha senso e non è scientifica. Essa rimanda all’etica e alla metafisica, che hanno la caratteristica di essere prive di fondamenti oggettivi» (p. 251).

8 Nell’accezione del termine così da lui chiosato: «Una categoria ibrida, al crocevia della filosofia, della letteratura, del giornalismo e talvolta della scienza, una razza bastarda di scrittori/scriventi» (p. 265).

9 Strana «parola-padrona» sembra diventata «gesuita» (e «loyolesco»), quando il Morin afferma che nelle «varie etiche di tipo gesuitico i mezzi più immondi sono nobilitati dalla finalità del servizio divino» (p. 256), e quando denuncia «il modello gesuitico/burocratico militare dell’organizzazione politica [...] da caporali» (p. 265).

10 Cfr E. MORIN, Autocritica: Una domanda sul comunismo, Il Mulino, Bologna 1962 (cfr Civ. Catt. 1963 III 157). In questo suo Per uscire..., alla p. 91, l’Autore spiega: «Nel mio Autocritique cercavo, non tanto di denunciare il partito, ma piuttosto di comprendere me stesso, di comprendere i miei processi di pensiero che mi avevano reso stalinista e che poi mi avevano destalinizzato, dal 1941 al 1951».

11 Morin è il nome di penna, da lui assunto fin dal tempo della Resistenza.

12 Ricorda: «Ci è voluta una fortissima erosione critica, disperata e disperante, provocata dalla morte di mia madre quando avevo nove anni [...] per liberarmi dal mio destino di orfano e ritrovare la comunione oceanica [...] anche e soprattutto ad opera dell’ideologia» (p. 158).

13 Confessa: «Parlo della mia esperienza. Ho vissuto la mezzanotte del secolo nel momento stesso in cui veniva annunciata da Victor Serge: il patto tedesco-sovietico, l’invasione della Francia, la rovina dell’Europa, la corsa tedesca verso Mosca: tutto questo sembrava segnare per sempre la fine di ogni speranza. Eppure, già a partire dalla fine del 1941, la speranza rinasceva [...]. Più tardi, alla fine del 1947, con la seconda glaciazione staliniana e la guerra fredda, ho creduto che il secolo si fosse ficcato entro un tunnel e che non ne sarebbe più uscito nel corso della mia vita. Ma nel 1953 l’Immortale [Stalin] moriva» (p. 317).

14 Il 2 luglio 1989, a Viareggio, veniva assegnato al Morin il premio internazionale «Viareggio-Versiglia» per il suo saggio La conoscenza della conoscenza, edito da Feltrinelli. In quell’occasione il Morin confessava: «Mi spiace che oggi, da più parti si esulti per la morte del comunismo. Ma auguro che esso non sia morto. Dovremmo, in tal caso, celebrare la morte degli ideali di eguaglianza e di perfetta giustizia sociale implicati nel comunismo. Chi ne celebra la morte, dovrebbe anche celebrare la morte del liberalismo e degli ideali di libertà, inscindibili dall’idea di giustizia» (cfr M. STAGLIENO, Dalla parte di un giudice, in Il Giornale, 2 luglio 1989).

15 Continua così il parallelo: «La scienza marxista-leninista è il nuovo mito di verità che si sostituisce alla rivelazione teologica. In effetti questo mito deriva i suoi caratteri fondamentali dalla teologia: la sua verità è assolutamente garantita, e i magi che stanno a capo del partito ne sono gli interpreti esclusivi. Il politico e il teologico si co-fondano e si confondono. Talvolta la regressione si spinge fino alla divinizzazione del capo guida, attraverso il quale il partito si autovenera e si autoadora nel suo simbolo supremo, costringendo la popolazione a fingere la medesima adorazione in culti grotteschi» (p. 199).

16 Rettificando Auguste Comte, per il quale «la matria [dell’uomo] era l’umanità», il Morin precisa: «La matria non è l’umanità. La matria è questo insieme ben strutturato, che è composto dalla terra in quanto essere fisico, dalla biosfera in quanto totalità della vita, ed anche dall’umanità stessa come parte integrante della biosfera. È un anello geofisico, biofisico, geo-bio-antroposociale. Come in ecologia un ecosistema è prodotto dalla congiunzione di una base geologica, di condizioni climatiche e di esseri viventi che interagiscono, così la nostra matria è in uno stesso tempo fisica, geologica, biologica, umana. Questa idea – che noi possediamo una matria – è fondamentale per uscire dal ventesimo secolo [...], per sviluppare la coscienza dell’unità della specie umana [...]. Si tratta di elaborare una religione di questa terra madre, di questa matria» (p. 13).

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Articolo estratto dal volume IV del 1990 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Il lettore non equivochi. Il contenuto di quest’ultimo volume del Morin1 risponde poco o nulla a quanto il suo titolo programmatico sembra promettere. In realtà, l’Autore ci presenta una raccolta di saggi – alcuni dei quali, come palesano le loro frequenti ripetizioni, riesumati da antecedenti pubblicazioni, e neanche tanto recenti2 –; saggi che spaziano dalla biologia all’antropologia, dalla sociologia alla demografia, dalla gnoseologia alla psicologia e alla psicanalisi, dall’ecologia alla politica, alla storia, alle religioni; e che, se – come la Prefazione e la Conclusione si aprono anche alla futurologia, lo fanno con tutta l’aleatorietà previsionale dell’epocale crisi multidimensionale che oggi viviamo3.

Questo inoltrarsi del Morin in svariati argomenti, più o meno attinenti alle scienze sociali, certo non riuscirà nuovo a lettori che lo sappiano docente, per almeno 30 anni, presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, e settantenne autore di una ventina di opere disparate4. Tuttavia, anch’essi proveranno sconcerto nel vederlo, in questi otto saggi, sperdersi in un susseguirsi di eventi più o meno recenti, storici o remoti, quali: l’Inquisizione, la Rivoluzione francese, la due guerre mondiali, le fosse di Katyn, il Maggio ’68, la crisi petrolifera del ’73...; in menzioni di autori più o meno noti e ignoti, quali: Pascal, Sartre, Popper, Althusser, Claudel, Freud, Benjamin, Marcuse; Poliakoff e Michelson, Batesov e Salantin, Benda e Austruy, Castoriadis e Gabel; e anche in problematiche socio-politico-culturali, quali: l’ipotesi di Gaia, l’entropia ed ecologia delle idee, il colonialismo culturale e la bomba atomica, la cibernetica e la teoria dei sistemi. Il tutto dilatato in enfasi oratorie, in esuberanze di sinonimi e di contrari, di rimandi a se stesso e di sintagmi ricorsivi5, che, se palesano sottigliezza d’intelligenza, finiscono con scadere in manierismi.

Siffatta multiformità culturale e straripante facondia certo non facilitano una valutazione del volume. Resta, tuttavia, abbastanza agevole rilevarne tre ricorrenti motivi, di dissimile valore. Il primo riguarda il – piuttosto encomiabile – Morin intellettuale-logicizzante; l’altro attiene al – piuttosto discutibile – Morin marx-leninista; mentre il terzo riguarda il – del tutto ricusabile – Morin (s)ragionatore di religioni e di cristianesimo.

L’intellettuale logicizzante

Per secoli, e fino a qualche decennio fa, gli «scolastici» introducevano i propri alunni nel mondo della filosofia con due corsi propedeutici; di «logica minore» il primo, volto ad addestrare le loro menti a ragionare in modo formalmente corretto; e di «logica maggiore» l’altro, diretto a far conoscere, confrontare e consapevolmente vagliare, secondo una propria visuale unitaria e coerente, i più rilevanti risvolti e sviluppi storici del pensiero umano.

Ebbene, anche il nostro Autore, benché per nulla «scolastico»6, cerca d’immettere il lettore nelle due questioni – ideologico-politica l’una e mitopoietico-religiosa l’altra – che più gli stanno a cuore, impegnandolo, specie nei primi tre capitoli o saggi, in una similare operazione d’igiene e di profilassi mentale, occorrente, egli pensa, per obiettivamente «vedere» (p. 37), correttamente «sapere» (p. 165) e criticamente «saper pensare il proprio pensiero» (p. 113). Partendo, infatti, da risaputi dati di psicologia percettiva e di antropologia culturale, egli inizia segnalando il pericolo di scambiare per realtà oggettiva, non soltanto residui di mentalità primitive, ma anche possibili alterazioni allucinatorie, proprie o di testimoni più o meno degni di fede. Scrive:

«Dobbiamo diffidare dei nostri occhi, anche se possiamo fidarci soltanto di essi [...]. Bisogna diffidare della nostra fiducia, ma anche diffidare della propria diffidenza. Il problema si chiarisce se pensiamo che i nostri occhi non sono soltanto i nostri occhi; che la vista deriva dall’interazione fra stimoli esterni, fra l’attività di impressione e di trasmissione ad un tempo del nostro apparato visivo e l’attività rappresentativa del cervello[...]. E dato che in ogni percezione sono in gioco processi cerebrali e psichici inconsci [...], abbiamo bisogno di processi cerebrali e psichici consci, per esaminare, per riflettere, per fare un’autocritica della nostra vista» (p. 45).

Passa, quindi, a rilevare la necessità di un’adeguata informazione su fatti, eventi, idee, cose e persone; ma anche la necessità di diffidare abitualmente della sua completezza e obiettività, stanti i condizionamenti deformanti praticabili da posizioni ideologiche individuali più o meno inconsce o palesi e – soprattutto oggi – di fatto praticati da prepoteri, politici ed economico-finanziari, che delle fonti e degli strumenti d’informazione detengono e manovrano le leve.

Da una siffatta informazione – egli prosegue – dovrebbe risultare la corrente complessità del «reale». Poco gradita, però, all’inerzia mentale di troppi pseudointellettuali, propensi, invece, a «paradigmi semplificatori» con i quali passare discutibili opinioni a dottrine categoriche, e ad ignorare tutto il resto dello scibile per chiudersi nella propria iperspecializzazione, con uso e abuso di «parole-padrone». Scrive ancora:

«Destra/Sinistra, Capitalismo/Socialismo, Fascismo/Antifascismo, Democrazia/Totalitarismo sono parole che, fra tutte le parole delle quali ci serviamo per indicare le cose politiche, hanno acquisito un privilegio e un dominio che le rende parole-padrone. Queste sono ad un tempo:
  • parole giganti, che estendono il loro impero su tutto il campo della politica: secondo quest’ottica: democrazia/dittatura, socialismo/capitalismo, sinistra/destra si disputano e si dividono il mondo;
  • parole iperdense, che concentrano in sé il massimo di significato e di verità, il che rende le altre parole vuote e false;
  • parole nodali, che sono i centri attorno ai quali gravitano le nostre credenze e le nostre idee;
  • parole cardinali, che ci indicano il basso e l’alto, il nord e il sud, il buono e il cattivo, la sinistra e la destra (e da questa funzione derivano appunto i termini di “sinistra” e di “destra”);
  • parole strategiche, fortezze delle nostre idee politiche, o al contrario: parole panzer, che intimidiscono e che terrorizzano il nemico» (p. 69).

Come si è visto, il Morin ricapitola il suo quasi corso logico-propedeutico con l’invito a «saper pensare col proprio pensiero» (p. 113). È un ricorsivo – pensiamo – senz’altro valido, se volto, com’è, ad adattare la nostra mente alla complessità di un «reale», che implica, insieme, il ricorso alla filosofia e alle scienze; che coinvolge, insieme, teorie e pratiche, soggetti diversi in ambienti culturali diversi; ma che, purtroppo, nella visuale dell’Autore, presto degrada a scetticismo sulle possibilità dell’intelligenza umana nel raggiungere, almeno in qualche ipotesi e campo, il «vero». Ciò si rileva specie quando, distinguendo tra homo sapiens e homo faber, e tra homo ludens e homo demens (p. 115), egli si schiera per una (giusta e necessaria) «razionalità» contro una (illusoria e indebita) «razionalizzazione».

Infatti, dopo aver notato che «la razionalità deve combattere continuamente la razionalizzazione, non soltanto in quanto nemico esterno che assume l’apparenza di ragione, ma soprattutto in quanto nemico interno che si sviluppa come un cancro in seno, in seguito a un’ipertrofia della coerenza logica ai danni della verifica empirica» (p. 138), egli deduce: «La vera razionalità comporta un incitamento permanente [...] verso la riflessione sulla coerenza logica, che deve essere continuamente intesa come strumento da applicarsi all’universo, e non come una prova ontologica della verità; [...]. La logica è necessaria in tutti i campi; ma in tutti i campi è ugualmente insufficiente, allorché giungiamo [...] ad ogni problema di senso» (p. 139); per chiudere il capitolo con un empirico-relativistico: «Una ricetta per pensare bene non è reperibile in alcun luogo. Quelli che possono, e che devono esistere, sono i metodi che aiutano a pensare da sé» (p. 163)7.

Che il Nostro, poi, nel suo lungo discorrere, si mantenga sempre coerente a questo suo programmatico rigore logico e informativo, non è detto. Càpita, infatti, al lettore attento, di sorprenderlo alquanto «saggista»8, cioè propenso, anch’egli, a qualche «paradigma semplificatore» e a qualche «parola-padrona»9; e soprattutto di coglierlo poco critico nel trattare le sue due crisi-chiave «per uscire dal secolo ventesimo»: quella, cioè, dell’ideologia marx-comunista e quella delle religioni, da lui considerate tutte mitiche.

Il disilluso ma credente marxleninista

Già nella sua Autocritique, del 195910, il Morin si dava quale sempre più critico e, insieme, quale convinto ideologo marx-comunista. Ebbene, a 30 anni di distanza la sua immagine non cambia. I fatti e gli eventi – per lui più emozionali-passionali che logico-culturali – rievocati e commentati in questa sua raccolta lo danno ancora quale sempre più disilluso ma, pur sempre, incoerente militante ideologico. Vediamolo nelle sue crisi.

Di famiglia ebraico-spagnola, approdata prima a Salonicco e a Livorno e poi in Francia, Edgar Naum(-Morin)11 nasce a Parigi l’8 luglio 1921. A nove anni è traumatizzato dalla morte della madre12. Liceale, diviso tra idee rivoluzionarie e le idee riformiste, studia Marx (p. 140); a 16 anni s’infatua del «completamente mitologico e completamente storico» (p. 260) commissario politico bolscevico del film I marinai di Kronstadt. All’inizio della seconda guerra mondiale, con l’occupazione tedesca, ricercato dalla Gestapo (p. 40), interrompe gli studi di economia politica, diritto e storia alla Sorbona, per recarsi nel Sud della Francia. Nel 1940-41 esita a lungo tra la fuga, il collaborazionismo e – dopo l’invasione dell’URSS da parte delle truppe tedesche e la resistenza di Mosca – l’entrata nel partito comunista (p. 141). Nel 1942 ne è membro e, insieme, partigiano antinazista; quindi, per due anni, anche responsabile dei gruppi studenteschi e redattore del giornale della federazione dei deportati controllata dal partito (p. 92).

Al termine della guerra fa parte del governo militare alleato in Germania: esperienza che gli frutta il suo primo libro, ispiratore dell’omonimo film di Rossellini, L’an zéro de l’Allemagne (1946). Rientrato a Parigi, sino al 1950 vi svolge il suo impegno politico soprattutto nel campo della cultura. Ma la «seconda glaciazione staliniana» lo getta in un’altra lunga crisi13, che sfocia (1951) nella sua espulsione dal partito (p. 141). Destalinizzato e diffidente, ma ancora non del tutto disilluso, al tempo del Rapporto Kruscev e prima dell’intervento russo in Ungheria, nel 1956 «sperava ancora che il comunismo di apparato potesse autotrascendersi da sé» (p. 261).

Viene da chiedersi se siffatta acritica speranza perduri ancora nel Nostro dopo gli anni 1989-90, segnati dal crollo del muro di Berlino e, con esso, del comunismo tout court. Ma in questa sua raccolta di saggi – edita, come si è detto, nei primi dell’89 – egli non poteva confermare quanto poi ha affermato altrove14. Tuttavia, quanto vi va affermando e argomentando palesa che anche per lui, «intellettuale dell’autoriflessione» (p. 220), «marxismo» e «comunismo» finiscono col fungere da «paradigmi semplificatori» e da «parole-padrone». Fa tenerezza sentirlo declamare in questi termini sul suo «marxismo aperto»:

«Oggi stiamo assistendo alla disgregazione anche di questo marxismo. Gli allocchi e i babbei credono che ciò significhi la fine di Marx. lo credo, invece, che può costituirsi un nuovo marxismo dominante, e che vedremo nuovi modelli caratterizzati da un riadattamento al nucleo [...]. I bisogni profondissimi ai quali rispondeva, ed eventualmente potrà ancora rispondere, il marxismo rimangono attuali: il bisogno di una visione del mondo, di un pensiero che si riferisca contemporaneamente alla conoscenza e all’azione, e che risolva il problema del “che fare”; il bisogno di una conoscenza superiore che sia superiore alla conoscenza frammentata della scienza, ma che, nel contempo, non sia di ordine speculativo-metafisico (che “superi” la filosofia); in definitiva, il bisogno giustificato di una metafora e il bisogno giustificatore di una Grande Dottrina» (p. 111).

Saldo com’è in questo suo credo ideologico, per lui anche gli eventi dello scorso anno segnano il crollo soltanto del «comunismo di apparato», del «socialismo reale»: «storicamente inspiegabile esito del deviazionismo staliniano» (p. 131). Così, tra le ideologie più disumane, col fascismo e il nazismo, egli enumera e denuncia il comunismo stalinista (pp. 32. e 76): reo, questo, di «aver ucciso più stalinisti di quanto non abbia fatto il nazismo» (p. 49). Rinnova, perciò, la sua fede negli «elementi teorici fondamentali del “gigante Marx” (p. 99), e nel suo carattere messianico [...], che lo spinse a cercare e a trovare la soluzione storica del problema della salvezza: l’avvento della società senza classi, la riconciliazione dell’umanità» (p. 84). In quanto al fenomeno staliniano, che ha reso «il marxismo l’ideologia più rincretinente e più reazionaria del secolo» (p. 215), egli cerca di salvarsi in corner affermando che «nessuna formula, nessun principio, nessuna logica semplice possono renderne conto, come, del resto, di qualunque altro fenomeno storico» (p. 131).

Per una religione non mitopoietica

L’altro leitmotiv, che il Nostro alterna a quello del suo marx-comunismo in crisi, è quello di una religione, oggi anch’essa, secondo lui, in crisi e, dunque, da ricondurre: da dottrina mitico-salvifica a condotta realistico-pratica. Pensa, intanto, di aver buon giuoco col cristianesimo, precorritore del marx-comunismo nel trasformare miti in dottrine dogmatiche, e attese umane in garantite salvezze. Con una malcerta conoscenza del pensiero cristiano-cattolico scrive tra l’altro:

«È nel momento in cui viene meno la promessa messianica del ritorno imminente del Cristo che si moltiplicano le documentazioni false che attestano la divinità di Gesù» (p. 5). «La prova che Dio esiste sta nel fatto che si è rivelato in Gesù, e questa rivelazione trova la sua prova nell’esistenza di Dio. Il Padre prova l’esistenza del Figlio, che prova l’esistenza del Padre. Su questa base la Chiesa ha prodotto delle enunciazioni che, non appena formulate, sono diventate dogmi, cioè verità dimostrate per sempre [...]. Il marxismo-leninismo contiene in sé la nuova dimostrazione circolare che entra in concorrenza con la rivelazione cristiana: il marxismo-leninismo prova scientificamente la missione rivoluzionaria del partito comunista, il quale prova sul piano pratico la verità scientifica del marxismo-leninismo» (pp. 98 s.).
«Quelli del socialismo reale ci credono, come l’umanità cristiana credeva nell’incarnazione e nella realizzazione delle promesse divine» (p. 73). «Il marxismo chiuso e iperdogmatico, dottrina ufficiale del partito comunista, è la forma moderna della teologia medievale» (p. 118).
«Gli intellettuali marxisti sono diventati i sacerdoti fanatici di questa religione, che prendono parte al culto del pontefice infallibile, che recitano le litanie, che praticano la sacra esegesi [...]; un fenomeno prodigioso, mille volte più ordinario del processo che ha condotto gli evangelisti delle origini al cattolicesimo dell’Inquisizione» (pp. 142 s.)15.

Ma pensa di avere eguale buon gioco anche con ogni altra religione che non s’inquadri nel suo empirismo meccanicista e nel suo criticismo positivista; che, infatti, gli fa rapportare ogni ordine esistente in natura, compreso quello vitale e cognitivo umano, al gioco casuale dei grandi numeri in tempi lunghi, relegando l’esistenza di uno Spirito trascendente alla mitopoietica propria di culture arcaiche.

Cos’è, per lui, il nostro organismo umano? «Il prodotto permanente delle interazioni fra trenta miliardi di cellule individuali, che emerge da queste informazioni dotato di organi e di un apparato neurocerebrale specifici, e può quindi, reagire su queste interazioni controllandole e governandole» (p. 118).
E che cosa sono, per lui, le cellule di questo nostro organismo? «Nel periodo prebiotico, per un miliardo di anni, sono state messe alla prova talune combinazioni temporanee, nessuna delle quali era in grado di sopravvivere, prima che si costituisse quella meraviglia che è l’organizzazione cellulare» (pp. 245 e 249). È proprio vero che «l’incomprensione è possibile! Tre miliardi di anni fa, particolari interazioni vorticose hanno potuto sfociare nella costituzione di un essere cellulare dotato di proprietà incredibili, se confrontate con quelle dei suoi stessi costituenti: la possibilità d’intrattenere scambi con l’ambiente, di autoorganizzarsi, di autoripararsi, di autoriprodursi» (p. 303).

His positis, egli deduce che, dunque, «ciò che vi è di più mitico dal punto di vista ideologico è la religione» (p. 123); che «gli dèi sono un prodotto della nostra mente. Prendono vita dominatrice in quelle comunità che li invocano, li venerano, li servono. In questo senso gli dèi sono viventi» (p. 97); «esistono [...] sotto forma di esseri noologici, che assumono sostanza a partire dalla fede collettiva e fervente dei fedeli. Giunti in questo modo all’esistenza, essi retroreagiscono poi sulla comunità che li fa vivere, ricevono preghiere e offerte, e si fanno obbedire» (p. 89). In quanto, poi, allo «Spirito» e ai monoteismi che lo ammettono quale unico Dio, ecco come, nel suo razionalismo materialista, egli ragiona:

«Lo spiritualismo e il materialismo sono stati – e rimangono – due dottrine che si fondano su di un nucleo di coerenza/evidenza. Ciò che li oppone è il paradigma che, in un caso considera primaria la realtà dello Spirito, e nell’altro considera primaria la realtà della Materia. Dato, però, che in tutti i fenomeni osservabili la mente di un osservatore è sempre presente, e dato che, d’altra parte, tutti i fenomeni spirituali e mentali sono accompagnati da un’organizzazione materiale (il cervello), entrambe le concezioni si fondano sui medesimi dati dualisti, anche se ognuna li gerarchizza in maniera differente dall’altra. Entrambe le concezioni sono dottrinarie perché non accettano e non si vincolano al carattere ambiguo e incerto dei dati empirici» (p. 105).
«Il monoteismo è l’espressione religiosa tradizionale del bisogno di una parola-padrona, e le ideologie della Verità suprema sono le versioni religiose moderne della grande Semplificazione [...]. La parola-padrona “Dio” è cieca all’Alfa e all’Omega [...]. La parola-padrona “Spirito” si apre su un’ombra totale. Da dove viene questo Spirito? Da che cosa può essere spiegato questo Spirito che spiega tutto? In realtà, dacché non conosciamo uno Spirito puro che sia indipendente dalle attività fisiche, biologiche, psichiche, dobbiamo ben comprendere come il termine Spirito sia inseparabile da interazioni organizzatrici di carattere fisico, biologico, psichico ad un tempo» (pp. 125 ss.).

A questo punto non gli resta che dichiararsi formalmente ateo. Ed egli lo fa. Ma – in sintonia col suo addomesticato neo-marxismo comunista – risolvendosi per un neo-ateismo, da condividere con neo-credenti. Vale a dire: per una pansimbiotica «religione matriottica»16; che, senza dèi come il buddismo, si collochi ai confini tra la filosofia e la religione: e che sia aliena da ogni messianismo salvifico così terreno-politico come escatologico-celeste; quale quello della Chiesa, che «divenuta nel 313 religione ufficiale dell’Impero Romano, nel suo trionfo espresse e nascose nello stesso tempo che la promessa dell’imminente ritorno del Cristo per realizzare la fine dei tempi, non sarebbe mai stata mantenuta» (p. 207). Vero è che qua e là, e specie verso la fine del volume, il Nostro non manca di echeggiare alcuni valori propri del Vangelo. Ad esempio: auspicando una non resistenza da parte di «una nuova specie di pacifici» (p. 313), qualificando gli uomini di ogni patria e colore «nostri prossimi» e «nostri fratelli», trattando di necessario pentimento e perdono (ivi), ma per subito precisare e ribattere che «il suo nuovo vangelo d’amore non si consacra piu all’eterno, ma si oppone ad esso» (p. 250).

* * *

Un contesto dottrinale – penserà il lettore frustrato – poco promettente per uscire indenni dal ventesimo secolo. Come poco convincente gli parrà il programma-ricetta semer [=seminare] → s’aimer [=amarsi] col quale il Morin chiude il volume. Dato, infatti, e non concesso che questo suo calembour valga – com’egli bizzarramente prospetta – per l’accoppiamento delle balene, certo non si addice a convivenze di umani che, non sentendosi fratelli e figli dell’unico Padre Dio, continuino a comportarsi, anche nel terzo millennio cristiano, quali l’un l’altro homo homini lupus. Resterà confermato che egli, «per tutto il libro non ha che annunciato continuamente la cattiva novella: una salvezza storica non esiste» (p. 291).

1 E. MORIN, Per uscire dal ventesimo secolo, Lubrina, Bergamo 1989, 320, L. 38.000.

2 Anteriori, cioè, agli anni 1980-81, come l’Autore precisa nelle pp. 15 e 16.

3 Di recente, a chi – riferendosi al suo noto studio L’esprit du temps (cfr Civ. Catt. 1964 III 248) – gli domandava: «Come vede lo Spirito dei tempo futuro?», il Morin rispondeva: «Non sono profeta [...]. Oggi stiamo attraversando una crisi multidimensionale, e quando ci si è dentro i pronostici diventano aleatori. Ciò che importa è prendere coscienza dell’esistenza di questa crisi» (cfr E. GUICCIARDI, C’era una volta Woodstock, in la Repubblica, 11 aprile 1989).

4 L’elenco, quasi completo, viene riportato nei risvolti anteriori dei due suoi volumi La Méthode, vol. I: La Natura de la Nature; vol. II: La Vie de la Vie (Seuil, Paris 1980). Tra i titoli, oltre agli otto di sociologia contemporanea, uno è sul cinema, due, rispettivamente, di politica e di giornalismo, e quattro di antropologia fondamentale.

5 Oltre ai due: titoli citati La natura della natura e La vita della vita, leggiamo tra gli altri: «Saper pensare il proprio pensiero» (p. 113), «Per sapere, dobbiamo anzitutto sapere il modo in cui riusciamo a non sapere» (p. 168), «L’errore di ignorare l’errore» (p. 181), «Lo stesso dubbio critico deve essere soggetto al dubbio e alla critica» (p. 185), «Faccio vivere la verità che mi fa vivere» (p. 186), «Smettiamoci d’ingannarci se vogliamo che smettano d’ingannarci» (p. 189), «Consente di mascherare la stessa maschera» (p. 191).

6 Denunciando come indebitamente semplicizzanti i nuclei di certe teorie, dottrine o ideologie, alla p. 101 scrive: «Esisteva, ad esempio, un nucleo centrale della filosofia tomista medievale. Questo collegava l’esistenza della rivelazione, i paradigmi aristotelici e la logica che da essi derivava per ogni aspetto del mondo. Ne conseguiva che ogni osservazione o esperienza non compatibile con la dottrina non poteva essere altro che inconsistente e irrazionale. Il nucleo centrale delle dottrine è evidenza/coerenza» (cfr anche, su Aristotele e il Medioevo, pp. 134 e 241).

7 E verso la fine del volume affermerà: «La nostra conoscenza scientifica può intendere soltanto azioni ben specifiche, e non riesce a comprendere né l’autonomia, né il soggetto, né la coscienza, né la responsabilità. A questo livello la nozione di responsabilità non ha senso e non è scientifica. Essa rimanda all’etica e alla metafisica, che hanno la caratteristica di essere prive di fondamenti oggettivi» (p. 251).

8 Nell’accezione del termine così da lui chiosato: «Una categoria ibrida, al crocevia della filosofia, della letteratura, del giornalismo e talvolta della scienza, una razza bastarda di scrittori/scriventi» (p. 265).

9 Strana «parola-padrona» sembra diventata «gesuita» (e «loyolesco»), quando il Morin afferma che nelle «varie etiche di tipo gesuitico i mezzi più immondi sono nobilitati dalla finalità del servizio divino» (p. 256), e quando denuncia «il modello gesuitico/burocratico militare dell’organizzazione politica [...] da caporali» (p. 265).

10 Cfr E. MORIN, Autocritica: Una domanda sul comunismo, Il Mulino, Bologna 1962 (cfr Civ. Catt. 1963 III 157). In questo suo Per uscire..., alla p. 91, l’Autore spiega: «Nel mio Autocritique cercavo, non tanto di denunciare il partito, ma piuttosto di comprendere me stesso, di comprendere i miei processi di pensiero che mi avevano reso stalinista e che poi mi avevano destalinizzato, dal 1941 al 1951».

11 Morin è il nome di penna, da lui assunto fin dal tempo della Resistenza.

12 Ricorda: «Ci è voluta una fortissima erosione critica, disperata e disperante, provocata dalla morte di mia madre quando avevo nove anni [...] per liberarmi dal mio destino di orfano e ritrovare la comunione oceanica [...] anche e soprattutto ad opera dell’ideologia» (p. 158).

13 Confessa: «Parlo della mia esperienza. Ho vissuto la mezzanotte del secolo nel momento stesso in cui veniva annunciata da Victor Serge: il patto tedesco-sovietico, l’invasione della Francia, la rovina dell’Europa, la corsa tedesca verso Mosca: tutto questo sembrava segnare per sempre la fine di ogni speranza. Eppure, già a partire dalla fine del 1941, la speranza rinasceva [...]. Più tardi, alla fine del 1947, con la seconda glaciazione staliniana e la guerra fredda, ho creduto che il secolo si fosse ficcato entro un tunnel e che non ne sarebbe più uscito nel corso della mia vita. Ma nel 1953 l’Immortale [Stalin] moriva» (p. 317).

14 Il 2 luglio 1989, a Viareggio, veniva assegnato al Morin il premio internazionale «Viareggio-Versiglia» per il suo saggio La conoscenza della conoscenza, edito da Feltrinelli. In quell’occasione il Morin confessava: «Mi spiace che oggi, da più parti si esulti per la morte del comunismo. Ma auguro che esso non sia morto. Dovremmo, in tal caso, celebrare la morte degli ideali di eguaglianza e di perfetta giustizia sociale implicati nel comunismo. Chi ne celebra la morte, dovrebbe anche celebrare la morte del liberalismo e degli ideali di libertà, inscindibili dall’idea di giustizia» (cfr M. STAGLIENO, Dalla parte di un giudice, in Il Giornale, 2 luglio 1989).

15 Continua così il parallelo: «La scienza marxista-leninista è il nuovo mito di verità che si sostituisce alla rivelazione teologica. In effetti questo mito deriva i suoi caratteri fondamentali dalla teologia: la sua verità è assolutamente garantita, e i magi che stanno a capo del partito ne sono gli interpreti esclusivi. Il politico e il teologico si co-fondano e si confondono. Talvolta la regressione si spinge fino alla divinizzazione del capo guida, attraverso il quale il partito si autovenera e si autoadora nel suo simbolo supremo, costringendo la popolazione a fingere la medesima adorazione in culti grotteschi» (p. 199).

16 Rettificando Auguste Comte, per il quale «la matria [dell’uomo] era l’umanità», il Morin precisa: «La matria non è l’umanità. La matria è questo insieme ben strutturato, che è composto dalla terra in quanto essere fisico, dalla biosfera in quanto totalità della vita, ed anche dall’umanità stessa come parte integrante della biosfera. È un anello geofisico, biofisico, geo-bio-antroposociale. Come in ecologia un ecosistema è prodotto dalla congiunzione di una base geologica, di condizioni climatiche e di esseri viventi che interagiscono, così la nostra matria è in uno stesso tempo fisica, geologica, biologica, umana. Questa idea – che noi possediamo una matria – è fondamentale per uscire dal ventesimo secolo [...], per sviluppare la coscienza dell’unità della specie umana [...]. Si tratta di elaborare una religione di questa terra madre, di questa matria» (p. 13).

In argomento

Anticlericalismo

n. 2681-2682, vol. I (1962), pp. 452-462, 547-555
n. 2669, vol. III (1961), pp. 514-516
n. 2603, vol. IV (1958), pp. 508-523
n. 2571, vol. III (1957), pp. 288-299
n. 2539, vol. II (1956), pp. 35-46
n. 2535, vol. I (1956), pp. 320-325