Articolo estratto dal volume I del 1958 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
L’idea di raccogliere in volumi critiche di film già pubblicate su giornali e riviste non è nuova. Negli anni 1953-1955, in Francia, Cl. Mauriac e A. Falle pubblicavano rispettivamente L’amour du cinéma e Spectacle permanent, mentre in Italia G. Calendoli pubblicava i due volumetti Film 1952 e Film 1953-1954. Tuttavia, l’Italia nel 1957 ha battuto un primato allineando, oltre alla traduzione di quella del Mauriac, tre raccolte di critiche, cioè: Questo buffo cinema, di G. Marotta, Film visti, di M. Gromo, e Panorama del cinema contemporaneo, di L. Chiarini1. Avendo noi, in questa sede, già presentato i volumi del Mauriac e del Marotta2, ci limitiamo oggi a parlare degli ultimi due. E cominciamo col dire che l’apporto culturale di siffatte raccolte ci sembra piuttosto scarso, specialmente se, com’è avvenuto in Italia, ci si limita semplicemente a raccogliere (mentre i due francesi inquadrano le critiche in prefazioni dottrinali e, inoltre, il Falk, le sussidia con testi desunti da altri critici), e soprattutto se si raccolgono solo critiche apparse su quotidiani e non quelle stese per riviste di meno frequente periodicità. Mentre, infatti, nel caso di queste ultime, il critico viene a disporre di un minimo di tempo e di spazio necessario per far sedimentare le prime impressioni prodottegli dallo spettacolo, e per documentare e precisare i suoi elementi di giudizio, le ferree esigenze della tempestività e della stringatezza dei quotidiani costringono il critico a fidarsi delle prime impressioni e ad esprimerle in giudizi perentori: inconveniente, questo, non leggero quando le opere da giudicare involvono problemi eterogenei, complicati e di grande portata, e il linguaggio che li esprime è quello impetuosamente suggestivo del cinema.
Perciò, se raccolte di critiche vogliono essere, preferiamo quelle di saggi veri e propri, dove la qualità delle analisi si avvantaggia sulla quantità dei film criticati, come avviene, per esempio, per i film di R. Clair, T. Dreyer e C. Chaplin nel volume di A. Salmi: Tre maestri del cinema3, o, per i film di problematica religiosa, nei volumetti dell’Ayfre e dell’Agel. Che se, poi, proprio ci si tiene a raccogliere i servizi effimeri della stampa periodica, allora, sul piano della cultura, preferiremmo che ciò si facesse seguendo criteri di omogeneità tanto nello scegliere i film quanto nello stabilire il punto di vista del critico: anzi dei critici, perché solo la lettura dei giudizi di più critici, provenienti da diverse esperienze, sullo stesso film, potrebbe avviare i lettori sprovveduti a quell’obiettività di valutazione che facilmente difetta nei singoli critici, se troppo sollecitati dall’ideologia del giornale cui collaborano, dagli interessi dei suoi lettori e dalla pressione dei produttori dei film, i quali ossigenano i giornali con la loro reclame.
Sì, anche le raccolte dei giudizi di un solo critico possono esser lette utilmente, ma più dai lettori che s’interessino al critico che da quelli che cercano oggettive notizie e orientamenti sui film criticati: a patto, tuttavia, che la scelta delle critiche, se necessaria, venga fatta seguendo criteri oggettivi e notificati ai lettori, e i giudizi stessi, nell’ambito del criterio scelto, siano riportati fedelmente nella stesura originale; solo in tal maniera, infatti, i lettori potranno rendersi conto delle impressioni che i film suscitarono al loro apparire e connetterle con le circostanze storiche ed ambientali che le condizionarono, come pure giudicare della validità o meno dei criteri estetici, sociali, politici e morali seguiti dagli autori e, se del caso, giudicare della loro evoluzione di pensiero e di gusto.
Entro questi limiti d’interesse abbordiamo la presentazione dei due volumi.
* * *
Se non erriamo, Mario Gromo è l’autore del primo articolo di critica cinematografica stabile apparso su un giornale in Italia. Da allora, primi mesi del 1930, durante più di venticinque anni d’ininterrotta collaborazione, i servizi da lui inviati alla Stampa, di Torino, hanno toccato i quattromila: di questi, circa trecento egli ne allinea, secondo un ordine cronologico, in Film visti, parecchio sfrondando, qualcosa variando e aggiungendo. Circa 540 pagine per 300 critiche fanno in media meno di due pagine a critica: evidentemente funzionano le strettoie giornalistiche di cui sopra, tanto a proposito di filmetti come Maciste all’inferno (1926) di Brignone, e King Kong (1931) di Schoedsack, quanto per capolavori come The kid (1920) di Chaplin, La passion de S.te Jeanne d’Arc (1928) di Dreyer, Alleluia! (1929) di Vidor, Le silence est d’or (1947) di Clair; solo il capriccio delle circostanze elargisce qualcosa più di due pagine a film di alta classe, come Man of Aran (1934) di Flaherty, Les enfants du paradis (1944) di M. Carné, Ladri di biciclette (1948) e Miracolo a Milano (1950) di De Sica, Europa ’51 (1952) di Rossellini, Justice est faite (1950) di Cayatte, Big carnival (1951) di Wilder; inesplicabilmente, il chapliniano Limelight (1952) se ne aggiudica ben undici.
Oltre che la brevità, anche la struttura delle critiche è tipicamente giornalistica. Tenendo conto della preparazione non specializzata dei lettori, il Gromo s’introduce, di solito, sommariamente ragguagliandoli circa la figura e l’attività del regista; indi, passando dal noto all’ignoto, individua le caratteristiche del nuovo film al lume, o per contrasto, di quelle di altri film dello stesso regista, o di argomenti e di correnti affini; spesso, per sommi capi, ne dà l’intreccio, ed infine conclude con un giudizio di valore globale fondato più sulla sua sensibilità di gusto che nell’analisi di ordine estetico psicologico, o di struttura di racconto e di linguaggio cinematografico. E bisogna dire che il suo gusto innato, affinato dal diuturno mestiere, per quanto lo porti ad essere più esigente che largo, è sicuro, ed è servito da uno stile tutt’altro che inflazionato da frasi fatte, com’è quello di molti giornalisti; egli è controllato nell’espressione, sia che approvi sia che riprovi, moderato nell’aggettivazione, e schivo di ogni retorica come di ogni tono popolaresco: alla Marotta, per intenderci. Alcuni “pezzi”, come quelli sull’Enrico V (1944) di Olivier, su Miracolo a Milano di De Sica, sul Journal d’un curé de campagne (1951) di Bresson, e sul Ritorno di Vassili Bortnikov (1953) di Pudovchin, sono felicemente indicativi di queste sue qualità. Il Gromo vi si mostra signore urbano e colto, che punta più sulla forza della cultura che sulle invettive delle passioni; se qualche volta se la prende con qualcuno – gli americani, o (meno felicemente) con la censura – lo fa con garbo da esteta, anzi con un certo distacco, che a lungo andare si direbbe assenza umana anche là dove diremmo che un critico cinematografico assente essere non dovrebbe: soprattutto un critico di un quotidiano. Rifacendoci a quanto notavamo a proposito di un altro suo buon lavoro4, si direbbe che egli non ricordi che il cinema non è né solo un’attività estetica né innocuo passatempo, ma formidabile mezzo di diffusione del pensiero ed imbattibile foggiatore degli schemi e della prassi morale privata e pubblica. Ora noi riteniamo che non si addice a un critico ignorare sistematicamente questa realtà, e men che meno a un critico cattolico. Che vale, infatti, affinare il gusto estetico del pubblico quando, potendolo, non lo si mette in guardia contro malformazioni di valori immensamente più preziosi? Scriveva recentemente Pio XII: «Molto utile sarà in questa materia l’opera del critico cinematografico cattolico, il quale non mancherà di porre l’accento sui valori morali, tenendo nel debito conto tali giudizi, che saranno di sicuro indirizzo ad evitare il pericolo di scivolare in un deplorevole relativismo morale o di confondere la gerarchia dei valori. Sarebbe deprecabile che i giornali e i periodici cattolici, parlando degli spettacoli, non informassero i loro lettori sul valore morale dei medesimi»5.
* * *
Di tutt’altra natura sono le considerazioni che affiorano leggendo il Panorama del cinema contemporaneo di L. Chiarini. Come non restare sorpresi, infatti, apprendendo dalla prefazione la provenienza dei pezzi in esso raccolti? Eccettuato, vi dice, il lungo saggio su Ossessione, di Visconti, inedito, tutto il resto proviene dal Contemporaneo e da Cinema nuovo, vale a dire da due riviste marxiste, e marxisticamente impegnate, tra le più antigovernative, ed anticattoliche, ed antireligiose che oggi conti l’Italia. Come si spiega – ci siamo chiesti – che un’impresa editoriale diretta da uomini che sono mandatari del governo, che appartengono al partito politico e che professano la religione tanto irosamente e bassamente attaccati da quei marxisti, forzi tanto la sua magnanimità da mettersi a loro disposizione per diffonderne gli scritti? E prescindendo pure dall’opportunità o meno di mostrare in questa maniera a quegli avversari irriducibili quanto sia infondata la loro continua denuncia di uno stato di oppressione da parte dei «clericali» in Italia, il fatto che i marxisti, nella teoria e nella prassi, subordinino tutto, quindi anche la cultura, alla più dommatica, e appena ne hanno le possibilità materiali, alla più feroce ideologia politica, non stride alcun poco col carattere culturale di una «Collana di studi critici e scientifici»? D’altra parte, l’apporto reale che alla cultura cinematografica il Chiarini poteva dare con la sua indiscussa competenza specifica, non era già stato efficacemente affidato da lui stesso ad altri volumi, di altre collane, antichi e recentissimi?
Questi interrogativi, sortici ad apertura di volume, non si sono dileguati a lettura terminatane. Abbiamo, è vero, nelle sue pagine, sorpreso un Chiarini non tanto manesco quanto ce l’avevano mostrato i suoi scritti sparsi; abbiamo anche trovato, rileggendone alcuni in fonte, che nel volume non sono stati riportati brani, frasi, pagine ed intere critiche particolarmente cariche di frecciate contro la censura, il governo, i cattolici, i democristiani; insomma, contro quanto e quanti le polemiche marxista e liberale, in ciò solidali, accomunano sotto l’etichetta di «clericali»6; ma anche così pastorizzato il volume abbonda di bòtte contro i «clericali». Confessiamo poi la nostra difficoltà nel giudicare l’opera culturale di un critico che reputa utile, se non necessario, disinfettare quanto qualche mese prima ha pubblicato in un «settimanale di cultura» e in una «rassegna quindicinale di cultura», Il contemporaneo e Cinema nuovo.
Ma prescindiamo dalla provenienza dei suoi materiali e stiamo al volume così come si presenta.
Per la parte redazionale molte caratteristiche lo differenziano da quello del Gromo. Intanto, i giudizi sono più diffusi: circa 120 in 500 pagine, fanno in media quattro pagine l’uno; poi sono disposti non in ordine cronologico, ma, seguendo un po’ il Mauriac, secondo registi, nazioni, correnti, generi, e siffatte divisioni vengono rincalzate da pezzi di saggistica, che prescindono da film particolari, e da questioni di linguaggio, di estetica e di morale cinematografica, nonché da una quindicina di film certo non «contemporanei», come li vorrebbe il titolo: tali, per esempio, alcuni che rimontano a dieci e più anni fa: Caccia tragica (1947), Paisà, Vivere in pace e Bataille du rail (1946), il ricordato Ossessione (1943); Modern times, che risale addirittura a venti anni fa, e Alt quiet on western front e City lights, che risalgono a venticinque; infine, nell’ambito delle singole critiche, mentre il Gromo limita a brevi incisi occasionali l’esposizione di alcuni principi di critica o di estetica che lo guidano, il Chiarini spesso vi si dilunga in pagine intere.
Circa il valore dei contenuti ci pare che il volume offra ampia materia per distinguere nell’autore il critico d’arte dal polemista politico: tanto attendibile il primo quanto molte volte sfasato il secondo. Chi, infatti, ha una certa pratica con gli scritti che il Chiarini è venuto pubblicando sul cinema da una ventina d’anni sa che, nonostante molte variazioni di pensiero, egli è stato e resta uno tra i critici dalle idee più chiare in fatto di linguaggio, tecnica ed arte cinematografici, e dalla pratica più che avvertita nell’analisi estetica delle opere filmiche, fatta non tanto mediante l’aggettivazione generica cara a critici poco seri, quanto mediante l’analisi dei mezzi espressivi della regia usati in funzione di stile, guidato com’è da un notevole buon gusto, affinatosi in una lunga pratica d’insegnamento, di critica, ed anche di regia.
In questo volume non mancano pagine particolarmente felici in questo senso, per esempio, a proposito di Ossessione, Umberto D (1952), Il tetto (1956), Romeo e Giulietta (1954), i film di Chaplin. In genere, quando l’autore fa vera critica d’arte, i suoi giudizi ci sembrano motivati e pertinenti; ma quando egli sconfina nel terreno del moralizzatore e dell’agitatore politico, allora cominciano gli sbandamenti, qualche volta tali da inficiare, si direbbe, la validità anche della sua competenza specifica. Gli è che, allora, la litigiosità gli prende la mano e lo sospinge tra le sabbie mobili di un certo idealismo, cui aderisce da vecchia data, e tra le contraddizioni di un suo socialismo, di data recente alquanto. In questi casi, pur riconoscendogli il diritto e il dovere di fare, oltre quella estetica (per i rari film artistici), anche una critica di morale, di costume ecc. (nei prevalenti film spettacolari, a tesi ecc.), ci duole vederlo abbassarsi a forme di polemica scarsamente obiettive sul pensiero degli avversari7, a difendere la socialità come caratteristica stilistica del cosiddetto neorealismo (e così far rientrare dalla finestra dell’ideologia politica, lui strenuo difensore dell’irrilevanza del contenuto nell’opera d’arte, quanto aveva cacciato dalla porta dell’estetica), o indulgere in una rettorica di dubbio gusto sulla resistenza, per giunta data come monopolio delle forze più «sinistre» della nazione, e battere e ribattere, con zelo degno di migliore causa, contro i misfatti della censura e dei «clericali», ed imporre ex cathedra una sua equazione tra arte e morale con l’aria d’ignorare quel semplice dato di cultura ch’è l’esistenza sulla faccia della terra di alcune centinaia di milioni di uomini, i quali danno, almeno al secondo termine, un’accezione del tutto contraria a quella idealista, fermamente credendo, e dimostrando, che la loro è l’unica vera.
Ci sembra che in queste condizioni il volume valga soprattutto come inequivocabile documento su una certa critica contemporanea. Ed è un vero peccato: sia perché, a differenza di quello del Gromo8, riducendovisi i valori di serena cultura, si aggrava la caducità propria di raccolte del genere, sia perché chi vi cercherà quel molto di vero che la competenza specifica dell’autore vi ha messo, stenterà a sceverarlo dalla ganga che le intemperanze di una polemica inutile vi hanno accumulato.
1 Mario GROMO, Film visti (dai Lumière al cinerama), Roma, Ediz. Bianco e Nero, 1957, in-16º, pp. 602. L. 3.000; Luigi CHIARINI, Panorama del cinema contemporaneo: 1954-1957, Roma, Ediz. Bianco e Nero, 1957, in-16º, pp. 630. Con 16 ill. f.t. L. 3.000.
2 Cfr Civ. Catt. 1957, IV, 73; 1958, I, 84.
3 Cfr Civ. Catt. 1956, III, 305.
4 M. GROMO, Cinema italiano, 1954, in Civ. Catt. 1955, II, 531-533.
5 Pio XII, Enciclica Miranda Prorsus, dell’8 settembre 1957, cfr Civ. Catt. 1957, III, 577, nn. 91-92. – Contrasta con l’accurarezzza linguistica e stilistica del Gromo l’aberrante uso che egli fa dell’accentuazione. Se egli vuole, caritatevolmente, venire incontro alle incertezze di lettori meno colti, passi che accentui diottrìa, scalèe, évocano, polìcromo, apòlide...; perché, però, non melalogo? Ma quale lettore di media cultura abbisogna poi che gli si accentuino termini comuni come scròscia, ròtoli, tranvài, barbàgli, vàlido, vediàmone, tégola, diméntichi, patìto, sagàcia, inclìne, gélido... ed altri, tutti così accentuati? E se proprio egli ci tiene ad accentuare manìa, regìa, scìa, parìa (!?)... perché restano senza accento follia, nostalgia, bugia? Innocui capricci di bravi scrittori, sul tipo di quello che fa scrivere regolarmente qual’è, fin’ora e mal’animo al Chiarini.
6 Ecco alcuni esempi di assenze, di soppressioni e di mutamenti. Non sono riportati i giudizi su Il cardinale Lambertini (1955), su Giovanni Huss (1956) e l’articolo su La Chiesa e il cinema; orbene: il primo conteneva questa perla: «Una figura destinata, in un periodo di gretto e fazioso clericalismo come l’attuale, a incontrare un sicuro successo... La favorevole accoglienza del pubblico... è certamente dovuta allo spirito che in esso si riflette e nel quale è pure avvertibile un soffio di polemica liberale» (Il Contemporaneo, 2 luglio 1955); nel secondo si affermava: «Il film non contiene nulla passibile di offendere il sentimento cattolico intelligente». Infatti «l’eretico affronta serenamente il rogo in nome della verità senza che la sua eresia gli potesse venire provata in base alle Sacre Scritture. Nulla di irreligioso, dunque, o di offensivo per un buon cattolico... Piuttosto il film dovrebbe far riflettere tutti coloro che vanno inscenando campagne sulla cosiddetta “Chiesa del silenzio” o che raccontano frottole agli ingenui sull’irriverente propaganda atea dei regimi comunisti. Dovrebbe farli riflettere perché in esso il rispetto del sentimento religioso è grandissimo, e toccante il modo con cui è espresso lo spirito cristiano delle masse...» (ivi, 24 sett. 1955); nel terzo si parlava del «Segno di Venere, che le autorità costituite hanno elevato a simbolo del film ideale... e di quel cinema italiano, profondamente morale ed umano... che il governo ha avversato proprio perché rispettava nello spettatore l’uomo» (ivi, 9 luglio 1955). – A proposito di «prelievi», ricordiamo: Un tram chiamato Desiderio (p. 335): espunte due pagine di «sfogo» contro la censura, di cui si chiede semplicemente l’abolizione (ivi, 22 maggio 1954); Il funeralino (p. 73): cancellate le parole: «Un approfondimento in senso sociale, che avrebbe potuto garantire il successo del film, sarebbe sicuramente incappato nelle maglie della censura» (ivi, 23 luglio 1955); Attila (p. 256), criticato dal Chiarini come un falso storico perpetrato dai clericali in favore di Leone Magno, nel volume (p. 256) manca della finale: «Così anche questo film dimostra, se ce ne fosse bisogno, di fronte alle ciance dei paladini della libertà del cinema, da quale parte sia la volontà di strumentalizzazione, con ogni mezzo, anche i più sciocchi, come in questo caso» (ivi, 16 aprile 1955); Il segno di Venere (p. 201) manca della chiusa: «Seguitando per questa strada avremo finalmente quel cinema libero, non più strumento di ideologie, ma della speculazione e del danaro, che i nostri paladini della cultura vanno sbandierando, allarmati evidentemente più dalla forza delle idee che da quella dei pacchi di biglietti da mille. Ma sarà bazza non tanto duratura» (ivi, 2 aprile 1955). Finalmente, ecco quattro casi di variazioni: la prima chiusura dell’Art, di arrangiarsi: «...in un momento così critico e delicato in cui si profitta di tutte le debolezze per barare al giuoco, alla critica non resta che dire la verità con durezza, anche a costo di essere sgradita. E speriamo che ciò non sia inutile» (ivi, 19 marzo 1955), nel volume (p. 128) si riduce cosi: «Ma la critica, anche quella cinematografica, deve dire la verità con durezza, a costo di essere sgradita»; parimente, la chiusa del Selvaggio, che originariamente (ivi, 9 aprile 1955) si snodava così: «Per questo il cinema americano trova da noi una censura così indulgente. Non risulta infatti che questo film, così selvaggio, sia vietato ai minori di sedici anni. Che ne dicono l’on. Scalfaro, tanto sensibile in altri casi, e il ministro Ponti, così preoccupato del cinema per ragazzi? Badiamo, qui non si vuole chiedere il ritiro del film dalla circolazione (tra l’altro una simile richiesta non avrebbe nessuna possibilità di successo, data la sua provenienza)... ma soltanto sottolineare ancora una volta i sani criteri a cui si ispira la nostra censura», nel volume (p. 330) si trova ridotta ed edulcorata in questi termini: «Perciò il cinema americano trova da noi un’accoglienza cosi indulgente e le preoccupazioni, sembra, per i film adatti alla gioventù non riguardano gli horror film». In Maddalena (p. 182), nei periodi: «Lo spirito del film, che si è; avvalso anche della consulenza ecclesiastica, è quanto mai grossolano e odioso... Le scene della casa di tolleranza, in confronto delle quali la censura ha in questo caso messo da parte la sua ben nota pudicizia, condotte spigliatamente...», sono stati espunti i due incisi da noi posti in corsivo; e finalmente, il finale di Waterfront, che nel Contemporaneo (18 dic. 1954) veniva seccamente giudicato: «Un film mancato nonostante questi indubbi meriti», nel volume (p. 319) diventa: «Un film, tutto sommato, di meriti notevoli, che avrebbe potuto raggiungere l’unità e la coerenza artistica senza il compromesso ideologico e spettacolare che lo mina...».
7 Un esempio di siffatto modo di polemizzare ci riguarda personalmente, ed è la controcritica fatta dal Chiarini alla critica da noi pubblicata sul Défroqué; (1954), di Joannon (Civ. Catt. 1954, IV, 320-329), e da lui pubblicata prima sul Contemporaneo, del 25 dicembre 1954, e poi, togliendone solo un avverbio, a pp. 542-547 di questo volume. Come allora non rispondemmo, cosi ora non entreremo in polemica; ci permettiamo tuttavia invitare i lettori nostri di allora e di oggi a controllare con quale obiettività il Chiarini abbia presentato ai suoi lettori marxisti il nostro pensiero, mentre a lui vorremmo porre le seguenti questioni: 1) Quali sono i numerosi altri film sulla vocazione sacerdotale cattolica, dato che «la tematica del Défroqué; è tutt’altro che nuova»; 2) Dove e quali sono «le lodi che le gerarchie cattoliche gli hanno tributato» (ma non citi La Civiltà Cattolica, prima perché noi non siamo «gerarchia cattolica», secondo perché noi abbiamo lodato senza riserve la dottrina del film, ma condannato per tre quarti il film su piano artistico); 3) Ammesso e non concesso che definire «film artisticamente mediocre ma spettacolarmente eccellente» Don Camilla sia fargli una lode e non una riserva (ha dimenticato il Chiarini la sua distinzione tra film e spettacolo?), dove e quando «soprattutto (questo è l’avverbio tolto nel testo pastorizzato) il padre Baragli non nasconde la sua contentezza» nel rilevare che quel film «segnò uno dei più grandi successi mondiali». In attesa che egli dica il suo pensiero in proposito noi non abbiamo difficoltà ad esprimere il nostro, e non di adesso, stimando quel film come spettacolare e divertente, ma moralmente dannoso, dando esso un’idea tutt’altro che vera del sacerdote cattolico e soprattutto minimizzando l’opposizione irriducibile che c’è tra teoria e prassi cattoliche e teoria e prassi marxiste, cosa questa che spiega l’appoggio che il film ha avuto, come ci consta, dalle «gerarchie» (questa volta sì) comuniste; 4) Quale inconveniente, dal punto di vista dell’ortodossia cattolica, ci sarebbe stato se Morand, invece che sul vino bianco avesse tentato il suo sacrilegio su dello champagne, come erroneamente è stato da noi supposto; 5) Se si accenni, nel film, o non si accenni ad un finale alla Griffith, dato che il critico prima ci redarguisce per averlo affermato e poi egli stesso lo suppone per condannare il film; 6) Dove e quando noi abbiamo computato i preti di Roma città aperta, di On the Waterfront, del Journal d’un curé de campagne tra i «preti aitanti e spericolati» che non ci piacciono; finalmente 7) dove e quando si è detto che l’ortodossia della dottrina sostenuta da un film coincida con l’esercizio della carità cristiana nel regista o nei suoi personaggi. Riguardo poi alla «condanna senza attenuanti» con cui il Chiarini gratifica il film «assolutamente sprovvisto di valori artistici», rilevandovi tra l’altro «il gigionismo che domina la recitazione degli attori, e in particolar modo di Pierre Fresnay, la grossolanità e il cattivo gusto della regia...», rispettosi (per quanto «clericali») della sua libertà di opinione, noi concordiamo piuttosto col giudizio del Gromo, che scrive: «La regia non mai superficiale, anche se non sempre meditata e concisa... e l’interpretazione di Pierre Fresnay quasi sempre appartiene ad una superiore bravura» (Film visti, p. 528).
8 Il quale contro la critica marxista scriveva recentemente: «Si può essere uomini di parte quanto si vuole ma, se si è dei critici, si devono tanto condannare le opere artisticamente mancate espresse da autori della stessa parte, quanto riconoscere le opere artisticamente valide espresse da autori di una qualsiasi altra parte. In ciò soprattutto consistono la libertà e la dignità del critico. Altrimenti non si ha critica: ma uno schematismo dovuto alla cosiddetta disciplina di partito, e alla aua propaganda. Credendo cioè, nel migliore dei casi, di fare della critica, quando invece si fa della politica; e non credendo nemmeno, nel peggiore dei casi, di fare della critica» (Cinema nuovo, «Sciolti dal giuramento», 1958, n. 123, p. 50).